Tutte le ragioni per votare “NO” contro una riforma sbagliata

Tutte le ragioni per votare “NO” contro una riforma sbagliata

A rischio equilibri costituzionali e rappresentanza dei cittadini

Ci siamo, e alla fine “tanto tuonò che piovve”: il Presidente della Repubblica, su proposta del Governo, ha firmato il 16 luglio il DPR che indice il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari per domenica 20 e lunedì 21 settembre, in concomitanza con le elezioni regionali (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto, Valle d’Aosta) e con quelle amministrative in numerose città, oltre che coll’elezione suppletiva di due senatori. È utile perciò compiere una riflessione complessiva e animata dal necessario spirito critico nei confronti di questa iniziativa che sta destando crescenti preoccupazioni sulla sua validità e sui riflessi che potrebbe comportare nella fisiologia delle istituzioni repubblicane. La riforma sottoposta a referendum mortifica il Parlamento e priva ingiustamente i cittadini di rappresentanza. A me sembra che ci siano forti ragioni per opporsi a questo taglio lineare dei parlamentari, e ho provato a spiegarle in più occasioni, anche su questo periodico (https://www.ilparlamento.eu/riduzione-dei-parlamentari-unapessima-riforma-unanalisi-di-enzo-palumbo, https://www.ilparlamento.eu/rivista-il-parlamento/). La disistima che molti cittadini, spesso con buone ragioni, nutrono verso una parte non piccola degli attuali parlamentari (non eletti dal popolo, ma, di fatto, nominati dai rispettivi partiti) non può essere un buon argomento per penalizzare la rappresentanza democratica delle persone e dei territori e, in definitiva, la stessa capacità rappresentativa del Parlamento e la funzione che esso è chiamato a svolgere nell’equilibrio tra i poteri dello Stato, già sin troppo mortificato nella pratica degli ultimi anni, e ancor più, degli ultimi mesi. Risulterà pregiudicato, specie al Senato, anche l’equilibrio tra la rappresentanza delle Regioni, che l’attuale testo dell’art. 57 ancora assicura, allorché, fatti salvi due senatori per il Molise e uno per la Valle d’Aosta, stabilisce che nessun’altra regione possa avere un numero di senatori inferiore a sette, mentre col nuovo testo il numero minimo diventerebbe tre, e quindi Basilicata e Umbria, passando da sette a tre, subirebbero una riduzione di rappresentatività del 57,1%, mentre il Trentino Alto Adige perderebbe un solo senatore (da sette a sei) con una riduzione di appena il 14,3%; lo strabismo costituzionale è palese. Per non dire della rappresentanza degli italiani all’estero, che rischia di passare da 12 a 6 eletti alla Camera e da 6 a 4 al Senato, per cui, negli enormi collegi esteri, risulterebbe impossibile la conoscibilità dei candidati, che pure è elemento indefettibile di ogni elezione democratica, come sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1-2014. Se questa riforma sarà approvata dai cittadini, in combinato disposto con le prevaricazioni che il Governo quotidianamente consuma nei confronti del Parlamento, la strada per la sua emarginazione sarà aperta più di quanto già non sia, e qualcuno si affretterà a mettere in pista la prossima riforma, quella dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, in modo da completare il percorso verso la democrazia “eterodiretta” da chi potrà disporre dei grandi mezzi di comunicazione e delle macchine, spesso diffusori di odio, dei social network. Si finirà allora per votare una volta ogni cinque anni, affidando il potere a un uomo solo (cioè, a una sola cricca di persone), e la strada verso una “demokratura” di tipo russo, ungherese, turco o kazako risulterà spianata. Per altro, la riduzione del numero dei parlamentari non è, per ciò stesso, una sforbiciata agli incapaci o ai fannulloni, anzi è prevedibile che siano proprio questi a salvarsi, proprio perché non danno alcun fastidio a chi dirige gli attuali partiti (o pseudo – partiti) e ha quindi il potere di rinominarli; si completerà allora il percorso che ci ha visti passare dall’ingiustamente vituperata partitocrazia della prima Repubblica – che al confronto coll’oggi brilla di luce propria – alla leadercrazia della seconda, e poi, via via peggiorando, all’oclocrazia (potere delle masse) di oggi e alla kakistocrazia (potere ai peggiori) di domani. Si può ritenere, insomma, che questa pseudo riforma non sia altro che un attacco diretto contro il Parlamento, e tenda a fare passare nell’opinione pubblica il messaggio che del Parlamento si possa fare a meno senza gran danno. Su questa china, una volta portata a compimento la riduzione di un terzo si potrebbe poi porsi obiettivi più avanzati: un taglio della metà dei Parlamentari o anche di più. Al limite si potrebbe andare oltre, come aveva ipotizzato in passato chi pensava che bastasse fare votare in Parlamento solo i capigruppo.

Ed è appena il caso di ricordare, solo per memoria essendo la situazione di oggi ben diversa da allora, che Benito Mussolini iniziò e proseguì la sua marcia autoritaria, prima con la legge maggioritaria Acerbo del 1923, e poi con la legge del 1928 che ridusse i deputati da 535 proprio a 400, facendoli eleggere (si fa per dire) in un Collegio Unico Nazionale su una lista precostituita di altrettanti candidati, previamente selezionati dagli organismi di regime, e votati in blocco dagli elettori cui era concessa la sola facoltà di esprimersi con un “sì” o un “no”, per altro difficilmente esercitabile nelle condizioni di allora. Insomma un fac-simile delle liste rigide di oggi, con la sostanziale differenza che, nel nostro apparente pluralismo, c’è anche la pratica impossibilità, per chi è fuori dal Parlamento, anche solo di comparire sulla scheda elettorale, tali e tanti sono gli ostacoli che vi si frappongono, a partire dall’atomizzazione dei finanziamenti privati, che ormai sono appannaggio di chi manovra i social network e può così accedere al fundraising, per passare alle decine di migliaia di firme da raccogliere in poche settimane, di fatto privilegiando i gruppi già presenti in Parlamento, che ne sono esentati; le alte soglie di accesso che si prefigurano faranno il resto, per cui le liste più grosse finiranno per dividersi anche i seggi spettanti a chi non li ha votati.

Rispetto allo scorso ottobre, quando la riduzione dei parlamentari è stata approvata in seconda lettura, la situazione, sotto il profilo politico ma anche istituzionale, si è semmai aggravata, perché allora c’era almeno la prospettiva di una nuova legge elettorale che attenuasse gli effetti rappresentativi della riforma, accompagnandola con alcune modifiche regolamentari necessarie per adeguare il funzionamento delle Camere alla loro nuova composizione. Quanto alla nuova legge elettorale, allo stato non se ne vede traccia, per cui c’è il rischio che permanga quella attuale, basata su collegi uninominali maggioritari di coalizione e sul voto congiunto per la parte formalmente proporzionale, il che consentirà alla più numerosa delle minoranze di potersi scegliere, oltre ai parlamentari, anche gli organi apicali delle istituzioni repubblicane, travolgendo surrettiziamente l’equilibrio tra i poteri dello Stato disegnato dai Costituenti. E quanto alle modifiche regolamentari, si pensi ai quorum richiesti per la formazione dei Gruppi e per numerose attività nelle Commissioni e nell’Aula, ma anche alla composizione di numerosi organismi interni (Uffici di Presidenza, Giunte e Comitati), per i quali occorrerà sciogliere il dilemma se sacrificare i gruppi minori, escludendoli, ovvero sovrarappresentarli.

Ma non è solo la normativa elettorale o regolamentare a venire in discussione, perché ci sarebbero anche da introdurre ulteriori modifiche costituzionali. Si pensi all’elezione del Presidente della Repubblica, e al peso che assumeranno i 58 delegati regionali previsto dall’art. 83 Cost. (3 per ogni regione, 1 per la valle d’Aosta), in termini assolutamente irragionevoli rispetto ai ridotti numeri delle prossime Camere (600), salvo a non dovere introdurre un’altra modifica costituzionale che riduca a due i rappresentanti dei Consigli regionali, e però, dovendosi comunque assicurare la rappresentanza delle minoranze, che avrebbe il grave inconveniente di sottorappresentare, in tale ipotesi, le maggioranze consiliari. E si pensi anche al fatto che sarà praticamente impossibile rispettare la norma del terzo comma dell’art. 72 Cost., per il quale le Commissioni permanenti (che possono anche legiferare in luogo delle Aule) devono avere una composizione proporzionale a quella dei gruppi parlamentari, il che comporterebbe ancora una volta la sovrarappresentazione dei gruppi minori, salvo che non si ritenga, paradossalmente, di implementare la composizione delle Commissioni per garantire la proporzionalità rispetto ai gruppi. Così stando oggi le cose, sembra che finalmente qualcuno se ne sia accorto e che un barlume di raziocinio abbia cominciato a brillare anche nelle fila del Partito Democratico, che, dopo averla per ben tre volte avversata, si è da ultimo convinto a sostenere la riforma per favorire la nascita del governo, senza evidentemente rendersi conto che barattare alcune norme costituzionali con una fetta di potere esecutivo ha costituito un vero e proprio delitto politico che, nel breve termine, pagheranno i cittadini rimasti privi di rappresentanza, ma che, alla lunga, pagheranno anche quelli che se ne sono resi malvolentieri complici, e che ora, cominciando a preoccuparsi, giudicano pericolosa questa riforma senza una nuova legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5%, apparentemente destinata a mitigarne gli effetti, e si sono ridotti a implorarne l’approvazione “almeno in un ramo del Parlamento”, presumibilmente quello più facile (la Camera), quasi che ciò possa garantire il passaggio anche nell’altro (il Senato).

Si immagina, procedendo così, che gli alleati più piccoli, quelli che nei sondaggi sono oggi sotto soglia, ma che in Senato sono determinanti (Italia Viva e LEU), possano contribuire col loro voto al proprio suicidio politico. Vedremo presto se questa tardiva resipiscenza avrà qualche effetto sulla posizione che il PD, assumerà in vista del referendum, anche se le premesse di questi giorni non sono incoraggianti.  Ciò che è poi accaduto non è certo di buon auspicio, se pensiamo alla scelta della maggioranza di governo di accorpare la votazione referendaria, destinata a incidere sulla carta fondamentale della Repubblica, alle elezioni per regioni e comuni, che sono destinate solo a scegliere presidenti e consiglieri regionali e amministratori locali. Stando alla legge 27-2020, che ha prorogato sino a 240 giorni decorrenti dall’ordinanza ammissiva del 23 gennaio, pronunziata dall’Ufficio Centrale presso la Cassazione, il DPR d’indizione poteva essere emesso sino al 19 settembre, e il referendum si sarebbe potuto in tal caso tenere in una domenica compresa tra i successivi 50 e 70 giorni, e quindi in una delle tre domeniche dell’8, 15 o 22 novembre. E tuttavia, nonostante l’emergenza sanitaria in corso sino al 31 luglio e ora prorogata sino al 15 ottobre, che avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi concentramento di elettori in tutta Italia, l’ineffabile governo Conte 2 ha fatto prima approvare da un accondiscendente Parlamento un inedito election day comprensivo del referendum, e ha poi proposto al Presidente della Repubblica di indirlo per domenica 20 e lunedì 21 settembre, insieme alle elezioni regionali, amministrative e suppletive senatoriali. Ora, l’election day elettorale (salva restando la contraddizione intrinseca colla permanenza dell’emergenza sanitaria) non crea particolari problemi, costituzionali o politici, che invece ci sono per il referendum costituzionale, che anche nel DPR d’indizione, viene impropriamente definito come “confermativo”, quando invece la Costituzione non lo definisce in alcun modo, facendo tuttavia intendere che esso è essenzialmente “oppositivo”, come per altro risulta dalla volontà dei 71 senatori che l’hanno promosso al dichiarato scopo di impedirne l’immediata entrata in vigore.

Nel silenzio dei media, che hanno prestato scarsa attenzione al conflitto di attribuzione sollevato dai promotori dinanzi alla Corte Costituzionale, e quindi senza che l’opinione pubblica ne sia informata e se ne renda conto, si sta creando un pericoloso precedente che nessuno dei governi del passato, pure di opposta colorazione politica, aveva mai osato introdurre in materia, avendo sempre evitato di mescolare in un’unica tornata votazioni così intrinsecamente eterogenee. Proverò a enumerare qui alcune criticità, senza pretesa di esaurirle.

1. Il dibattito politico sarà assolutamente asimmetrico, in termini inversamente proporzionali all’importanza del voto: la riforma costituzionale, che riguarda l’impianto rappresentativo della nostra democrazia, finirà per essere oscurata rispetto al dibattito politico per presidenti di regione e sindaci; nelle zone dove si voterà per regionali e amministrative, si parlerà solo di queste e non del referendum, e nel resto d’Italia l’attenzione sarà concentrata sullo svolgimento, sulle aspettative e sulle conseguenze politiche delle elezioni regionali e amministrative;

2. l’asimmetria, oltre che politica, sarà anche territoriale, perché la partecipazione al voto in alcune zone (quelle dove si vota anche per presidenti e sindaci) sarà maggiore e in altre minore (quelle dove si vota solo per il referendum), e ciò renderà asimmetrico anche il risultato dei territori, che invece, per il referendum costituzionale, deve svolgersi in un unico collegio nazionale con partecipazione territoriale potenzialmente omogenea;

3. l’eterogeneità delle materie ha sempre suggerito all’attento legislatore del passato di tenere ben distinto qualsiasi tipo di elezione rappresentativa, e quindi anche politica, rispetto a ogni votazione referendaria, abrogativa e costituzionale; mai, nelle tre precedenti occasioni (2001, 2006, 2016), il referendum è stato abbinato ad altre scadenze elettorali; per non dire che per i referendum abrogativi è addirittura legislativamente prevista (art. 31 L. 352-1970) l’impossibilità di svolgerli nello stesso anno o in prossimità di elezioni politiche;

4. quanto al referendum costituzionale, la legge 352-1970, che reca norme di attuazione dell’art. 138 Cost., fissa una rigida tempistica, che vede interagire l’Ufficio Centrale presso la Cassazione, il Governo e il Presidente della Repubblica, in termini che prescindono da concomitanti scadenze elettorali; sta di fatto che in questo caso, facendosi scudo del Covid-19, questa tempistica è stata sconvolta, e il DPR del 28 gennaio 2020, con cui era stato tempestivamente (e forse anche troppo) indetto il referendum per il successivo 29 marzo, è stato revocato col DPR del 5 marzo, senza neppure fissare una nuova data, e in tal modo violando il chiaro disposto dell’art. 15, comma 3, della L. 352-1970, che consente il differimento (ma non la revoca tout court) di un referendum già indetto nel solo caso di abbinamento con un diverso referendum su  altra  riforma costituzionale che sia stata nel frat- tempo approvata; sta di fatto che il comma 3 dell’art. 15 non risulta in alcun modo modificato dall’art. 81 del DL 17.03.2020 n. 18, che ha invece modificato soltanto il primo comma, portando da 60 a 240 giorni il termine entro il quale emanare il DPR d’indizione;

5. la stessa legge 352-1970, sempre all’art. 15, ma al comma 2, stabilisce che per il referendum costituzionale si debba votare soltanto in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno dal Decreto d’indizione, e tuttavia in questo improprio election day, con la scusa del distanziamento sociale, è previsto che si voti anche il lunedì, senza che il disattento legislatore emergenziale si sia preoccupato di derogare alla legge 352-1970, che è in materia è considerata la “legge madre” attuativa dell’isti- tuto referendario; e così, invece di andare in deroga al comma 2 dell’art. 15, con la legge 59-2020, che ha convertito il DL 26-2020, vi è stato inserito l’art. 1-bis, il cui primo comma ha derogato all’art. 1, comma 399, della L. 147-2013 (stabilendo che si debba votare anche il lunedì), e il cui comma 3 ha modificato l’art. 7 del DL 98- 2011 (stabilendo che il principio di concentrazione delle scadenze elettorali si applica anche al prossimo referendum costituzionale).

In tal modo si sono conseguiti due paradossali risultati: quello di affermare un principio che per il referendum in passato non era mai esistito, e al con- tempo quello di contraddirlo, applicandolo a questo solo caso, e quindi degradandolo a mera eccezione, valido per una sola volta: una scelta davvero encomiabile!

E che in materia sia sempre stato vi- gente l’opposto principio dell’assoluta separatezza tra referendum ed elezioni di qualunque livello, risulta in particolare confermato proprio dal testo ori- ginario dell’art. 7 del DL 98-2011, che al comma 1 ha sempre previsto l’accorpamento tra elezioni amministra- tive, regionali e politiche, al comma 2 anche con le elezioni europee, e al comma 2-bis l’accorpamento in unica tornata tra più referendum abrogativi, mentre l’eventuale concentrazione dei referendum costituzionali è sempre stata disposta dall’art. 15, comma 3, della L. 352-1970.

Mi sembra di potere concludere che le criticità politiche, territoriali e normative sono assolutamente evidenti, e resta solo da vedere come e quando si possa contrastare il tentativo, tanto grossolano quanto immotivato, di “clandestinizzare” il referendum, nascondendolo tra le pieghe della competizione politica per i presidenti regionali e per i sindaci, e così instillando nell’opinione pubblica il messaggio subliminale che il taglio dei parlamentari sia cosa tanto secondaria quanto scontata, in modo che i cittadini non si rendano nemmeno conto del vulnus che si sta consumando ai loro danni, con l’unica fragile (e stupida) motivazione di un risparmio risibile per le casse dello Stato.

È doveroso quindi esprimere l’auspicio che, in uno Stato di diritto quale dovrebbe ancora essere il nostro, qualche magistratura, ordinaria o costituzionale, opportunamente sollecitata da chi ha ancora a cuore il rispetto delle regole – quelle scritte della Costituzione e delle leggi, e quelle non scritte ma egualmente pregnanti della prassi politica – voglia intervenire per mettere ordine in questo guazzabuglio, nel quale siamo precipitati per l’insipienza di chi ha accettato di sacrificare sull’al- tare del governo la propria contrarietà, secondando la vulgata populista di chi a sua volta prova a intestarsi un risultato da sventolare dinanzi alla sua presunta costituency elettorale. Non sono bastati, evidentemente, il fallimento della conclamata “lotta alla povertà” e dopo che le sentenze dei giudici dell’autodichia stanno ammainando la bandiera dei vitalizi sulla base di consolidati principi di diritto ignorati dai demagoghi in servizio permanente ef- fettivo, per indurre a comportamenti più ragionevoli.

Lo spettacolo al quale stiamo assistendo vede un partito politico, il Movi- mento 5Stelle, intento a segare il ramo dell’albero sul quale sta seduta la nostra democrazia parlamentare, e tanti altri comprimari (chi più, chi meno) che, per convinzione,  per  interesse o solo per pavidità, hanno fornito in Parlamento i loro voti per completare l’opera, mentre ora manifestano, con poco coraggio un pentimento decisa- mente tardivo e/o si rifugiano nell’ignavia del disinteresse, fingendo che la questione neppure esista.

Al momento in cui chi scrive sta ulti- mando questo testo non è ancora noto l’esito dei giudizi di ammissibilità dei due conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte Costituzionale proposti contro l’election day dal Comitato Promotore del referendum (conflitto n. 7-2020) e dal sen. De Falco (conflitto n. 9-2020), e dell’altro conflitto proposto dalla Regione Basilicata (conflitto n. 8-2020) sia contro l’election day, sia contro la drastica riduzione dei senatori spettanti alla regione. E tuttavia, sinché siamo in tempo, e quale che sia l’esito del contenzioso costituzionale, il 20  e 21 settembre, o quando sarà, impegniamoci a fermare questa pericolosa deriva sbarrando NO sulla scheda referendaria, anche per fare intendere che, comunque vada, c’è un’area di opinione pubblica che non è per nulla disposta a subire senza reazione vere e proprie sciocchezze costituzionali.

 

Pubblicato dalla rivista  Il Parlamento ieri, oggi e domani

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