“Non mi preoccupo per il debito: è abbastanza grande da badare a se stesso”. Una memorabile battuta del Presidente Reagan, che oggi si rivela una profetica intuizione.
Il debito pubblico degli Stati Uniti, infatti, si attesta ormai al 127% del Pil, con deficit pari a un quarto dell’intero Pil mondiale. Sono i valori monstre di un apparato “insostenibile”, per citare alla lettera il nuovo studio del National Bureau of Economic Research. Il prestigioso think tank lancia un monito sulla gravità di un dissesto divenuto strutturale e ingestibile, con prospettive future a dir poco allarmanti, che vedono il debito impennare ben oltre il 150% del Pil nei prossimi trent’anni.
Il bilancio federale è fuori controllo e le casse languono. Lo certifica anche il Dipartimento del Tesoro, che prevede di rimanere a secco di liquidità per saldare i conti del Paese entro agosto, chiamando il Congresso ad agire in tempo per scongiurare il default. Il debito di Washington, in sostanza, ha raggiunto il punto di criticità, oltre il quale si autoalimenta, rende pressoché inarrestabile la propria crescita e vanifica i tentativi di spending review che si susseguono. A dispetto dei piani di contenimento del pubblico impiego attuati dal Doge di Elon Musk, infatti, le voci di spesa che maggiormente contribuiscono allo squilibrio sono di natura non discrezionale e, per tale ragione, difficili da abbattere: la previdenza sociale, i sussidi ai disoccupati e ai tanti veterani di guerra e i programmi di assistenza sanitaria, che contribuiscono allo stock di spesa per il 66%. Non da ultimi, come accennato, gli interessi sul debito stesso, che impattano per il 13% del totale e lo dotano di gambe proprie su cui correre. Una quota, quest’ultima, seconda solo alla previdenza sociale (21%) e al piano di assistenza sanitaria Medicare (13,3), ma che supera di mezzo punto percentuale persino la spesa in difesa (12,5%).
Alle implicazioni economiche si sommano le conseguenze geopolitiche. Gli Stati Uniti, infatti, sono il Paese del G20 con il maggiore livello di indebitamento netto nei confronti dell’estero, pari all’80% circa del Pil. Nel caso del debito pubblico, la quota detenuta da soggetti stranieri, pubblici e privati, si attesta a un imponente 30,2%, di cui il 13% è detenuto dal Giappone e il 9% dalla Cina, seguiti dall’Unione Europea. Un’esposizione, questa, che assume valenza ben più critica nell’attuale contesto di tensioni commerciali imposte da Trump al mondo intero e che vede negli attori citati i più colpiti.
È così, dall’urgenza di fare cassa, che ha preso corpo la convinzione di poter ricorrere ai dazi anche come strumento di gettito per percepire “migliaia e migliaia di miliardi di dollari per ridurre le nostre tasse e ripagare il nostro debito nazionale”, come sostenuto dallo stesso Trump durante il discorso del “Liberation Day” dello scorso 2 aprile. Non sono dello stesso avviso gli analisti, concordi nello stimare che gli effetti negativi su consumi e crescita superino abbondantemente le entrate fiscali record registrate lo scorso mese, grazie agli introiti delle tariffe doganali. Nonostante i 16 miliardi di dollari raccolti nel solo mese di aprile, infatti, il deficit ha registrato un significativo incremento del 23% su base annua. Un gettito, quello ricavato dai dazi, destinato comunque a crollare già nel mese di maggio, a fronte di riduzioni, pause e accordi commerciali indetti dalla Casa Bianca, a testimonianza dell’insostenibilità del modello.
Il Presidente Reagan sapeva bene che “non si riduce il deficit aumentando le imposte”. Le tariffe doganali, dopo tutto, non sono altro che tasse e, tra i loro effetti più deprimenti, vi è anche l’applicazione della più odiosa tra le tasse occulte su imprese e cittadini: l’inflazione. Per Trump, a corto di alternative, mettere mano al leviatanico bilancio federale, con manovre di spending review lacrime e sangue, sarebbe sicura causa di alienazione delle simpatie di milioni di cittadini americani. Con un orizzonte elettorale di cortissimo respiro, marcato dalle midterm distanti solo un anno e mezzo, lo scenario più plausibile vede il debito di Washington saltare la cura dimagrante e proseguire, inesorabile, la propria disastrosa marcia.