La crisi della politica? Tre casi lo dimostrano

La crisi della politica? Tre casi lo dimostrano

Tre eventi, apparentemente senza rapporti, sono sintomatici della crisi non solo della politica, ma del modo di dibatterne i problemi. 

1. Primo esempio. Il decreto sicurezza oggi, salvo sorprese, verrà approvato dalla Camera. Ebbene, in un lettera pubblicata dal Corriere due giorni fa, Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha scritto: «Assimilare sicurezza e immigrazione in un unico decreto non mi pare né utile, né giusto. Favorisce una percezione della migrazione e dei movimenti dei rifugiati come minacce alla sicurezza pubblica. Questo è profondamente fuorviante». Ebbene, in poche righe ci sono tre contraddizioni.

La prima, che il concetto di rifugiati è un concetto giuridico, e si riferisce ai richiedenti asilo in quanto perseguitati «per razza, religione, cittadinanza, gruppo sociale o opinioni politiche». Ne sono comunque esclusi i migranti per ragioni economiche. Ebbene, la stragrande maggioranza dei nostri rifugiati non è affatto perseguitata: non lo sono i marocchini, gli algerini e i tunisini, e tanti altri provenienti da Paesi che non saranno modelli di rispetto dei diritti umani, ma che comunque non sono brutali dittature.

La seconda contraddizione è che anche i Paesi persecutori siedono all’Onu, e quindi contribuiscono a nominare, direttamente o meno, proprio l’Alto Commissariato. Quell’Alto Commissariato che invoca la protezione di chi scappa da loro.

La terza contraddizione è che probabilmente il binomio insicurezza-immigrazione non sarà percepito a Ginevra, sede dell’Alto Commissariato, dove non entrano migranti né regolari né irregolari, ma lo è in modo doloroso nelle nostre periferie, dove spaccio di droga, e cosiddetta microcriminalità sono appannaggio di organizzazioni che sfruttano gli immigrati. E non è affatto una percezione suscitata dalla «fuorviante assimilazione di sicurezza e immigrazione»: è una statistica che si trae dalle denunce e dal numero dei detenuti. Probabilmente Grandi non poteva dire altrimenti, visti i vincoli postigli dai suoi committenti. Ma le contraddizioni rimangono.

2. Secondo esempio. Malgrado le critiche di ordine tecnico provenienti praticamente da tutte le parti, opposizioni, avvocati e anche magistrati, il Ministro della Giustizia persiste nel mantenere quella mostruosità illiberale della sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La risposta del Guardasigilli è di disarmante freschezza: fa parte del contratto di governo. Ora, a parte il fatto che l’accordo prevede soltanto che la prescrizione venga cambiata, non dice affatto che debba esserlo in modo così radicale, incostituzionale e irragionevole. Soprattutto in assenza di garanzie di contemporanea riforma del processo penale che altrimenti verrebbe snaturato.

3. Terzo esempio. Il caso di papà Di Maio, che avrebbe violato le norme di assunzione di lavoratori, invitandoli poi al silenzio. In un paese normale questa storia non dovrebbe avere nessun riflesso politico nei confronti del figlio vicepremier. Durante la Prima Repubblica, le colpe dei padri non ricadevano sui figli, e viceversa. Pochi esempi, come quelli di Piero Piccioni e di Marco Donat Cattin confermano la regola: lì si trattava di sospettati di omicidio, droga e terrorismo: reati aggravati per il primo dalla pruderie degli anni Cinquanta, e per il secondo dalla voce che il padre Carlo avesse aiutato il rampollo nella fuga. Ora invece, di fronte a un caso di poco conto, si sta scatenando il putiferio. Perchè? Perchè lo stesso partito di Di Maio, a suo tempo, si servi di quest’arma impropria per attaccare gli avversari a cominciare da Renzi e da Maria Elena Boschi. I quali hanno reagito con signorilità compassionevole, ma hanno ricordato il linciaggio politico e umano – cui furono sottoposti per presunte colpe altrui. E cosa fanno ora i grillini? Invece di ammettere che a suo tempo furono profittatori forcaioli, e di manifestare il fermo proposito di astenersi nel futuro da simili sciacallaggi, si limitano a fare spallucce borbottando che qui si tratta di fatti diversi.

Concludo. Cosa hanno in comune questi tre eventi? Una cosa assai evidente: che gravi e urgenti problemi politici non vengono affrontati con argomentazioni raziocinanti, ma con una sorta di emotività che sconfina negli slogan. L’appello a un generico solidarismo dell’Alto Commissario, l’impacciato rinvio all’impegno contrattuale del ministro, e un generico fare spallucce da parte dei colleghi di Di Maio. In definitiva, un approccio improprio alla politica che dimostra i condizionamenti e i limiti di chi la gestisce.

Carlo Nordio, Il Messaggero 28 novembre 2018

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