Sale il cuneo fiscale, scende il potere d’acquisto. Per la ripresa, occorre invertire la rotta.

Sale il cuneo fiscale, scende il potere d’acquisto. Per la ripresa, occorre invertire la rotta.

Tornano a contrarsi i redditi reali delle famiglie italiane. Nonostante un avvio positivo, infatti, preoccupano le nuove rilevazioni dell’OCSE, che certifica la riduzione dello 0,6% del nostro potere d’acquisto nell’ultimo trimestre del 2024. Un dato che vede l’Italia penultima nell’area, con la sola Australia a riportare un calo più significativo (-1,8%), contro una media in modesto rialzo dello 0,5%. Circoscrivendo l’analisi al G7, invece, il nostro Paese è fanalino di coda, seguito dalla Germania, nuovo grande malato d’Europa, che registra una contrazione simile (-0,5%). Un passo indietro a cui concorrono certamente più fattori: l’inflazione, la diminuzione del reddito netto da proprietà, l’aumento dei contributi sociali e, come denunciato dal Presidente di Confindustria Emanuele Orsini, il costo dell’energia, per la quale gli italiani pagano le bollette più care d’Europa per distacco.

Tuttavia, il nodo cronico e strutturale rimane quello dei salari: “inadeguati”, per riprendere la definizione del Presidente Mattarella, e che aumentano nettamente meno dei prezzi. Al contrario, le retribuzioni reali degli italiani, adeguate al carovita, non crescono ormai da trentacinque anni: un fatto che non ha equali in Europa e per il quale registriamo anche la contrazione più elevata tra i Paesi del G20 nel periodo tra il 2008 e il 2024, in cui il crollo riportato è dell’8,7%. Pesa certamente la produttività, che si attesta ben al di sotto della media europea e che non cresce in modo significativo da almeno vent’anni. Tuttavia, determinante risulta il cuneo fiscale, con il peso delle tasse sugli stipendi salito al 47,1%, di 1,61 punti dal 2023, come rilevato dal nuovo rapporto “Taxing Wages” dell’OCSE: un onere ben più gravoso della media europea, pari al 34,9%, che continua a erodere i nostri salari netti e li relega al ventitreesimo posto su trentotto nell’area di riferimento, superati ormai da quelli spagnoli e prossimi persino a quelli di Polonia e Turchia.

È dunque nella morsa del fisco il nodo da sciogliere. Con metà salario che se ne va in tasse, non stupisce che l’Italia resti saldamente ancorata alla cerchia dei Paesi con il più alto cuneo fiscale sul lavoro dipendente, quarta dietro a Belgio, Germania e Francia; Paesi in cui si percepiscono, però, stipendi nettamente superiori a quelli italiani. Il tutto, a dispetto del fatto che il costo del lavoro, nel nostro Paese, risulta inferiore rispetto a quello di molte altre economie avanzate. Anche in questo contesto, il tema è quello l’inefficienza del sistema fiscale, misurata dal rendimento in busta paga di ogni euro speso in costo del lavoro: è tra le più basse nell’OCSE, con soli 68 centesimi che finiscono effettivamente nelle tasche dei lavoratori, contro gli 86 centesimi della media dell’area.

Senza un consistente allentamento della pressione fiscale, risulta complicato intravedere spiragli di crescita e invertire la rotta della stagflazione. Agli occhi degli italiani, infatti, l’inflazione percepita ha toccato la quota da capogiro del 10%. Il divario sostanziale con quella reale, al 2% ad aprile, è spiegato dall’indagine di Noto Sondaggi secondo cui il 61% dei nostri connazionali considera insufficiente il proprio stipendio. Sebbene più lentamente che in passato, infatti, i prezzi continuano pur sempre a crescere. Di contro, sugli stipendi reali, i rilievi Eurostat non lasciano scampo a interpretazioni: i nostri sono i più modesti tra quelli di tutti i grandi Paesi europei.

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