«Gli Stati Uniti incentivano, i cinesi pianificano, gli europei regolamentano.» Con questa massima Luca De Meo, ex AD del gruppo Renault, ritraeva il quadro desolante dell’automotive continentale nella sua *Lettera all’Europa* del marzo 2024: un intervento che precedeva di 6 mesi la presentazione del Rapporto Draghi sul futuro della competitività europea, condividendone il senso d’urgenza per l’adozione di riforme non più procrastinabili e la lecita preoccupazione per l’inesorabile perdita di terreno del Vecchio Continente dinanzi ai colossi dei mercati globali.
Proprio il Rapporto Draghi, il 9 settembre, spegnerà la sua prima candelina e, a soli 12 mesi dalla nascita, trova un mondo profondamente mutato negli equilibri geopolitici e commerciali. Dopo tutto, lo scorso settembre Donald Trump non aveva ancora staccato il suo secondo biglietto per la Casa Bianca e la prospettiva di una guerra commerciale su scala mondiale, innescata dagli USA e in grado di far vacillare il multilateralismo e i principi dell’ordine mondiale fondato sul libero scambio, appariva implausibile.
Quello scenario, così surreale, è oggi realtà. Ciò che rimane invariato è la propensione di Bruxelles a erigere e mantenere barriere interne che mandano in fumo punti di PIL. D’altronde, è la Commissione Europea stessa a stimare che il mantenimento degli ostacoli al mercato unico impedisce all’economia di generare 713 miliardi di euro di valore aggiunto entro il 2029. Sono quei dazi che l’Europa “ha imposto con successo su se stessa”, riprendendo la formula utilizzata dallo stesso Draghi, e che equivalgono, secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, a una tariffa del 45% sui beni manifatturieri e del 110% sui servizi.
La diagnosi, dunque, rimane la stessa, eppure la prescrizione resta lettera morta. A certificarlo è l’European Policy Innovation Council, che ha istituito l’Osservatorio Draghi sull’attuazione del Rapporto, dalle cui rilevazioni emerge che a malapena l’11,2% delle 383 raccomandazioni contenute nel documento è stato attuato. Iniziativa, questa, a cui fa sponda l’istituzione dell’Osservatorio sul diritto all’innovazione della Fondazione Luigi Einaudi, sorto dalla paradossale constatazione che le indicazioni più disattese del Rapporto sono proprio quelle in materia di innovazione e nuove tecnologie: intelligenza artificiale, semiconduttori, produzione di batterie al litio.
Inevitabilmente, gli effetti deleteri dell’iper-regolamentazione si ripercuotono sul tessuto imprenditoriale dell’Unione. Non a caso, la rappresentanza totale dell’Europa tra le 50 aziende di maggiore valore al mondo è scesa da 22 a 4 negli ultimi 25 anni. In particolare, nel settore tech, tale numero è diminuito di oltre il 60%, passando da 8 ad appena 3. Inoltre, dal 2008, gli Stati Uniti hanno dato origine a ben 9 nuove aziende valutate oltre un trilione di dollari, mentre l’Europa non registra neanche una presenza in tale classifica. Negli ultimi 50 anni in Europa non è stata fondata nemmeno un’azienda che abbia raggiunto un valore di almeno 100 miliardi di dollari. Al contrario, il 73% delle trenta maggiori aziende mondiali nel settore dell’alta tecnologia ha sede negli Stati Uniti e nella top 10 delle società con la più alta capitalizzazione al mondo, gli USA occupano 8 posizioni su 10, con l’Europa non pervenuta.
Naturalmente, anche sul piano macroeconomico, Bruxelles arranca mentre Washington e Pechino corrono. Nel 2008, infatti, il Pil europeo e quello statunitense erano praticamente equivalenti. Oggi, invece, l’economia degli USA è circa il 50% più grande rispetto a quella di tutta l’UE e il reddito pro capite europeo è inferiore del 34% rispetto a quello americano. Eloquente il dato del Mississipi, Stato più arretrato dei 50, che risulta comunque più ricco di tutte le economie europee, ad eccezione della sola Germania, che lo supera di appena 1.500 euro. Parallelamente, si è verificato anche il sorpasso del Pil cinese ai danni di quello europeo.
Così, il declino appare strutturale e ineluttabile, frutto di gabbie burocratiche e labirinti normativi: un pantano in cui è facile cadere e da cui è altrettanto complicato riemergere senza decisioni drastiche e che richiedono assunzioni di responsabilità su cui si gioca la credibilità e la tenuta futura delle istituzioni comunitarie.