Senza avventurarsi nel merito

Senza avventurarsi nel merito

La legge costituzionale sulla separazione delle carriere deve essere ancora approvata, ma l’Associazione nazionale magistrati ha già avviato la campagna referendaria. Una campagna senza esclusione di colpi. Il primo, la diffusione di un documento risalente al 1994 in cui l’allora pubblico ministero Carlo Nordio si pronunciava contro la separazione delle carriere, è stato un colpo basso. Tre volte basso. Prima di tutto perché volto a delegittimare moralmente l’autore della riforma in quanto persona, piuttosto che a contestare nel merito la legge che l’Anm disapprova. In secondo luogo perché accredita l’idea di una rivelazione non autorizzata, mentre è stato lo stesso Nordio, l’ultima volta in un’intervista al Giornale uscita tre giorni prima dello “scoop” dell’Anm, a dare la notizia della sua precedente opinione e a spiegare le ragioni per cui aveva poco dopo cambiato idea.

In terzo luogo, il colpo è stato basso perché nega implicitamente la possibilità che una persona possa cambiare opinione senza essere in malafede, il che fa al tempo stesso torto al senso comune e all’essenza del Parlamento. Cosa direbbe, allora, l’Associazione nazionale magistrati se a cambiare opinione sulla separazione delle carriere fosse stata non una singola persona ma un’intera classe dirigente politica. Al congresso che il Partito democratico tenne a Roma nel 2019 (6 anni fa, non 31) i sostenitori della mozione Martina approvarono un documento in cui era scritto: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Tra le firme spiccava quella di Debora Serracchiani, attuale responsabile Giustizia del partito, la quale oggi sostiene che “la separazione delle carriere smantella la Costituzione, incide sull’indipendenza della magistratura, ha un intento punitivo e non serve a risolvere i problemi della Giustizia”.

Debora Serracchiani e buona parte dei dirigenti del Partito democratico hanno, dunque, cambiato opinione, ma poiché l’opinione cui sono infine approdati è quella gradita all’Anm in loro non è stata ravvisata traccia di opportunismo. Il passato non esiste, ma se anche esistesse il
cambiamento di rotta, avrebbe i crismi del ravvedimento operoso. Caso emblematico, a riguardo, è quello di Giovanni Falcone. Nel 1991, il magistrato più amato dagli italiani e più detestato dai magistrati diede un’intervista a Mario Pirani di Repubblica. La riforma Vassalli, che sancì il passaggio del sistema penale dalla logica inquisitoria a quella accusatoria, era entrata in vigore da appena due anni e Falcone da lì avvia il proprio ragionamento: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa… Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un
nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo”. Che è esattamente l’accusa che l’Anm rivolge oggi a Carlo Nordio. Ma a chiedere conto del parere di Giovanni Falcone ad un qualsiasi magistrato dell’Associazione la risposta è sempre la stessa: “Erano altri tempi, il contesto è cambiato”. Ma guarda un po’…

La Ragione

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