Scuola, è ora di dare le pagelle agli insegnanti

Scuola, è ora di dare le pagelle agli insegnanti

L’anno scolastico è appena iniziato con 230.000 alunni in meno rispetto all’anno passato, ricordandoci che la questione demografica per il nostro paese è assai complicata. Nel contempo, se non affronteremo il prima possibile in modo adeguato il nodo della formazione dei giovani, il danno alla nostra economia e alla nostra società potrebbe essere imminente e molto serio.

Nella campagna elettorale in corso il tema scuola è sfiorato solo di sfuggita. Non che nei programmi dei partiti manchino spunti e riflessioni interessanti sul da farsi, ma le proposte che catturano più l’attenzione spesso sono purtroppo piuttosto sgangherate. L’esempio più eclatante è la promessa, trasversale ad un certo numero di partiti, di portare i salari degli insegnanti italiani al livello di quelli Europei.

Come ha notato l’Osservatorio dei conti pubblici Italiani, se il parametro è riferito alle nazioni dell’Eurozona, quelle che hanno adottato l’euro, portare il salario degli 890 mia insegnanti italiani da 30.800 euro al livello del Vecchio Continente di 44.400 euro costerebbe 11,7 miliardi! Ma l’aspetto più sconfortante è che in questa proposta non si prende minimamente in conto quella che dovrebbe essere la missione della scuola: educare e formare i cittadini di domani dotandoli delle capacità di discernimento e di principi di comportamento che aumentino le loro chances di vita e non distribuire stipendi sinecura a prescindere dai risultati.

Eppure, le cifre del declino del sistema dell’istruzione sono palpabili. Prendiamo i test Ocse Pisa che si svolgono in 93 paesi e coinvolgono studenti di 15 anni con uguali standard di valutazione. Nel 2018 il 33% di ragazze e ragazzi italiani non ha raggiunto il livello 2 (low performer) che denota difficoltà a maneggiare materiale un po’ complesso. Tale percentuale raggiunge il 50% negli istituti professionali ed è uno dei livelli più bassi tra i paesi sviluppati.

Le prove Invalsi del 2021 hanno certificato che alla fine della scuola superiore il 51% degli studenti non ha competenze adeguate in matematica e il 44% non le raggiunge in italiano con un enorme divario tra Nord e Sud. Un altro dato sconfortante riguarda l’abbandono scolastico (prima del conseguimento di un diploma) attualmente al 13,1%, il quarto peggior risultato nella Ue.

Peraltro, i diplomati rappresentano il 62,9% della popolazione contro il 79% europeo. Cosa manca all’Italia? In sintesi: soldi, merito, concorrenza. Nel bilancio dello Stato, le spese per l’istruzione rappresentano il 3,9% del Pil contro la media europea del 4,7%. Con il Pnrr qualche risorsa in più c’è, ma l’ammodernamento delle aule, la maggiore enfasi sull’orientamento e la formazione degli insegnanti benché utili non bastano ed è del tutto inutile aggiungere insegnanti.

Il problema è il merito, come su questo giornale ha ricordato Massimo Recalcati: non solo il 99% di promossi alla maturità è ridicolo ma è intollerabile l’appiattimento del corpo docente. Non si trovano professori di matematica soprattutto al Nord? Li si paghi di più, vista l’incapacità di far di conto degli allievi.

Alcuni docenti sono inadatti o poco solerti e formati, mentre altri sono coscienziosi, aggiornati e coinvolgenti? Premiamo i secondi e stimoliamo i primi, nel frattempo rallentandone il percorso di carriera. Ed è vero che la valutazione della performance non è facile, ma si fa in tutta Europa e dal 2005 la valutazione individuale prevale su quella collettiva ed è sia esterna (ispettori) che interna (presidi, consigli scolastici, eccetera).

Infine, la concorrenza: il problema italiano è di offerta, rigida, determinata ministerialmente, con scarsa flessibilità all’autonomia dei provveditorati o degli istituti e con l’handicap delle rette per le scuole paritarie.

Se lo Stato finanziasse le famiglie e non gli istituti, quindi in linea con il dettato costituzionale, con una quota da spendere nella scuola di preferenza e ci fosse un’offerta diversificata che tiene conto delle esigenze del mercato del lavoro, ne trarrebbero giovamento l’economia e soprattutto le giovani generazioni. Leggendo i programmi possiamo valutare chi dà l’impressione di meglio capire queste priorità: a promettere più denaro son buoni tutti.

La Stampa

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