Rinnovo metalmeccanici: il contratto collettivo non diventi ostacolo al lavoro

Rinnovo metalmeccanici: il contratto collettivo non diventi ostacolo al lavoro

“Ogni qualvolta le remunerazioni salariali vengono spinte, per effetto di uno sciopero “vittorioso”, oltre i limiti del mercato, il mercato si “vendica”: aumenti di prezzi e riduzione della produzione sono le conseguenze inevitabili”. Sono parole di Bruno Leoni, raccolte ne “La libertà del lavoro”, edito da Rubbettino. Considerazioni risalenti agli anni Sessanta dello scorso secolo, che tuttavia mantengono un’attualità disarmante. “Le imprese”, ammonisce l’economista, “diventano meno attive, o addirittura passive, gli investimenti che avrebbero potuto potenziare il lavoro (e quindi le remunerazioni salariali) non possono farsi, l’impresa decade. Riduzione dell’occupazione esistente, mancata occupazione delle nuove leve di lavoro, rincaro parallelo del costo della vita”. Questi, secondo Leoni, “i corollari inevitabili delle “vittorie” sindacali contro il mercato”. Vittorie di Pirro, giochi a somma negativa in cui, nel lungo periodo, risultano sconfitti anche quegli stessi lavoratori che avevano avanzato la pretesa di un trattamento più vantaggioso.

Difficile non ravvisare un’analogia tra lo scenario descritto da Leoni sessant’anni fa e le attuali dinamiche in capo a certa contrattazione collettiva nel nostro Paese. Il pensiero, senza esitazioni, va all’agognato rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici, su cui le parti sociali, più che distanti, appaiono ormai alla deriva, in uno stallo che si protrae addirittura dallo scorso giugno. Per trovare una quadra, bisognerebbe comprendere che non è certo colpa dei lavoratori, ma nemmeno delle imprese, se l’intero settore attraversa una crisi profonda e sistemica. Il metalmeccanico, infatti, è tra i comparti della nostra economia che più arrancano. Nel 2024, la sua produzione ha chiuso al -4,2% su base annua: un dato sconfortante, di gran lunga peggiore di quello riportato dall’intera industria italiana (-2,5%), con l’86% delle aziende del settore a registrare un dato di segno negativo e circa la metà delle stesse a dichiarare un calo del fatturato. Parimenti, le esportazioni metalmeccaniche hanno subito una contrazione del 3,8%, contro al -0,4 dell’intero export del Paese. Come scontata conseguenza, il contraccolpo sul dato occupazionale non si è fatto attendere, con oltre 13.500 posti di lavoro persi negli ultimi cinque anni, tra automotive, siderurgia ed elettrodomestici. A questi, occorre aggiungere le migliaia di esuberi annunciati o già effettuati da inizio anno, come i 500 allo stabilimento Stellantis di Melfi. Inoltre, la qualità dei posti di lavoro che rimangono è a picco, con un incremento del 33% su base annua di ricorso alla cassa integrazione. Secondo le rilevazioni della FIOM-CGIL, infatti, la misura riguarderebbe ormai un metalmeccanico su due.

A determinare un quadro così tetro non è certo l’avidità degli imprenditori, ma cause che, talvolta, hanno origini esterne: il calo della domanda, la crisi dell’automotive, le tensioni commerciali determinate dai dazi di Trump e l’aumento dei costi energetici. Pertanto, leggere il presente con le categorie delle lotte novecentesche non è solo anacronistico: è anzitutto nocivo. Gli operai, come tutti i lavoratori, meritano retribuzioni eque e certezza occupazionale, ma è complicato rivendicarle in una congiuntura economica marcata dalla volatilità, dall’arresto della crescita economica e dal crollo della produzione e degli scambi commerciali. In siffatto contesto, reclamare un aumento salariale di 280 euro, come avanzato dalla FIOM, è implausibile; farlo pretendendo anche di ridurre la settimana lavorativa da 40 a 35 ore a parità di retribuzione è utopico, soprattutto in un paese in cui la produttività è in calo cronico e il cui indice si attesta ormai sotto quota 100: tra i dati più negativi d’Europa, persino più di quello greco, e ben al di sotto della media dell’eurozona, pari a 106.

Quando slegato dalla produttività, l’eccessivo ricorso alla contrattazione collettiva, nella sua forma più rigida e centralizzata, diviene concausa del declino del settore e della sua drastica perdita di competitività sui mercati globali. Competitività su cui l’Italia inciampa, come certifica il più recente rapporto della Commissione Europea in merito, in cui ci classifichiamo ventunesimi nell’Europa a 27, perdendo tre posizioni rispetto alla rilevazione precedente e scivolando ormai sotto la Spagna. È una fase storica drammatica per i lavoratori italiani di ogni settore, nessuno escluso. Nel nostro Paese, infatti, i salari reali non crescono da oltre trent’anni. Al contrario, dal 2008 al 2024, hanno riportato una riduzione drastica, di circa l’8,7%: più che in tutti gli altri Paesi del G20, conferendo all’Italia anche il primato di unico Paese dell’UE in cui si sono persino contratti.

Mai come oggi occorrono buon senso e lungimiranza da tutte le parti sociali coinvolte. Le rappresentanze datoriali hanno il dovere di riaprire i tavoli della concertazione e trovare soluzioni per porre fine a un’impasse estenuante, che danneggia l’intero tessuto produttivo del Paese. Allo stesso modo, i sindacati hanno ogni diritto di tutelare i propri rappresentati, astenendosi tuttavia dall’imposizione di formule insostenibili per le imprese e che, nel lungo periodo, finirebbero per danneggiarli. In caso contrario, riprendendo le sempre attuali riflessioni di Bruno Leoni, il rischio è che la strenua difesa di alcuni posti di lavoro diventi, nel lungo periodo, di ostacolo alla tutela e alla qualità dell’occupazione nell’intero comparto.

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