Recovery Fund a metà, i progetti valgono (solo) 100 miliardi

Recovery Fund a metà, i progetti valgono (solo) 100 miliardi

L’ultimo aggiornamento del programma economico-finanziario del governo è quasi pronto, incluso il dato oggetto delle maggiori attenzioni: il livello del debito pubblico. Quest’anno il ministero dell’Economia lo vede in aumento fino quasi al 160% del prodotto lordo, dal 135% dov’era rimasto per i sei anni di debole ripresa fino al 2019. Significa che il debito pubblico italiano oggi è di fatto al punto più alto mai raggiunto dallo Stato unitario, alla pari con il livello toccato alla fine della Grande guerra e nel pieno della febbre spagnola che spazzò via mezzo milione di italiani in pochi mesi verso la fine del 1918.

Il governo ha esattamente quel livello di debito, benché per un quinto (poco più di 500 miliardi di euro) sia oggi in mano alla Banca d’Italia che di fatto restituisce al Tesoro gli interessi pagati da quest’ultimo. Per gli anni prossimi poi la nota del governo indica un percorso in discesa del debito, ma a una condizione che non viene esplicitata: la parte di prestiti di Next Generation EU (o Recovery Fund) riservata all’Italia, per circa 127 miliardi, non dev’essere assorbita dal governo se non in piccola parte; oppure, se quei soldi sono presi, questa parte di prestiti europei non viene usata per finanziare investimenti in più rispetto a quelli già previsti dal 2019. Al contrario, questa porzione di finanziamento deve servire principalmente per sostituire con debito verso l’Unione europea il debito verso il mercato che lo Stato italiano avrebbe comunque contratto per finanziare vecchi progetti che esistevano già. In sostanza la spinta addizionale alla ripresa garantita dal Recovery Fund, in base ai piani attuali, vale circa la metà dei 209 miliardi assegnati al Paese nel negoziato di Bruxelles. Il resto è sostituzione di debito con altro debito, a condizioni meno onerose, per pagare gli stessi piani di prima.

La nota di programma del ministero dell’Economia ad oggi prevede infatti che gli investimenti in più permessi da Next Generation EU si debbano finanziare quasi tutti attraverso la parte da 82 miliardi dei trasferimenti diretti di Bruxelles. Solo quella infatti non andrebbe ad aumentare il debito, se utilizzata, proprio perché lo Stato non deve rimborsarla. Ciò però ha anche alcune implicazioni per l’impatto che il Recovery Fund può avere sulla ripresa in Italia: dopo un crollo del fatturato di 156 miliardi nel 2020, l’anno prossimo dovrebbero affluire da Next Generation EU appena dieci miliardi per investimenti aggiuntivi, l’anno dopo altri quindici miliardi e il resto gradualmente fino al 2026. Sarebbe senz’altro un aiuto, ma non una svolta dopo una caduta dell’economia di quasi il 10%.

Il Corriere ha parlato con sei persone coinvolte in posizioni diverse in questa partita ed è ormai chiaro che almeno due fattori spiegano la cautela del ministero dell’Economia nel gestire la quota di prestiti del Recovery Fund. Il primo è naturalmente il peso del debito. L’altro però è nei dubbi che stanno emergendo quanto alla qualità degli investimenti che l’amministrazione è in grado di sviluppare, una volta superata quota cento miliardi di euro.

Lo Stato oggi non solo fatica a spendere i soldi europei, visto che è appena il 38,5% di assorbimento dei fondi ordinari del periodo 2014-2020; stenta anche a formulare progetti credibili per somme troppo vaste. Un punto fermo per il Recovery Fund però c’è: nuovi ammortamenti per beni tecnologici delle imprese, sul modello Industria 4.0, partono da gennaio per essere scontati fiscalmente nel 2022.

 

Corriere della Sera, 29/09/20

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