Nelle scuole italiane cresce ogni anno il numero di bambini e ragazzi che hanno bisogno di sostegno perché – a detta degli insegnanti – manifestano difficoltà. La richiesta è esplosa al punto da rendere difficile distinguere una condizione reale da ciò che, in fondo, è una normale fase legata allo sviluppo. In alcune classi si sfiora il 20% dei casi, in altre si è superato il numero degli insegnanti disponibili. Ci s’interroga se siano stati alzati i parametri diagnostici o se invece sia la realtà a essere cambiata. Come sovente accade, la risposta sta nel mezzo: qualcosa è cambiato, ma non tutto in meglio.
Ho come l’impressione che si sia allargata l’area del sospetto patologico, perché quello che una volta era “un bambino vivace” oggi è diventato “un disturbo oppositivo-provocatorio”; colui che un tempo veniva considerato “in ritardo”, oggi è un “profilo borderline: chi in passato tendeva a distrarsi spesso, oggi rientra nell’Adhd (acronimo inglese che sta per “Disturbo da deficit del neurosviluppo’). Siamo passati da una scuola che ignorava le difficoltà a una che ora le diagnostica a ogni costo. Lo si fa per prudenza, non sia mai, ma anche perché ormai è diventata un’azione automatica prevista dal sistema scolastico e istituzionale. Non si trascuri quanto segue: nessuno nega che esistono bambini e ragazzi con disabilità, disturbi dell’apprendimento o situazioni complesse. Ed è giusto e doveroso dar loro strumenti, sostegno e attenzione. Però c’è una differenza tra l’aiutare chi ha bisogno e il trasformare ogni differenza in una diagnosi. Il costo che paghiamo non è soltanto economico ma culturale, poiché stiamo crescendo generazioni a cui insegniamo che il disagio è patologia e che quel percorso è l’unico valido.
Intanto le famiglie – spesso su indicazione delle scuole – si rivolgono sempre più ai Comuni per ottenere ore di assistenza specialistica, soprattutto per i casi in cui il sostegno ministeriale non è bastevole o non arriva. I sindaci, già alle prese con bilanci asfittici, non sanno quale risposta dare di fronte a richieste sempre più numerose. In certi territori il peso economico del sostegno scolastico rischia di superare quello dei servizi sociali essenziali. Sarà per questo che si scarica sui Comuni una responsabilità che è culturale e nazionale, senza strumenti né strategie? In molti casi – e qui il discorso si fa scomodo – i sistemi scolastico, sanitario e persino familiare incentivano la certificazione perché una diagnosi dà accesso a risorse, insegnanti e percorsi privilegiati. Le famiglie chiedono, le scuole spesso segnalano per prudenza, i neuropsichiatri certificano perché le linee guida lo impongono e così nessuno ha torto, ma il risultato pare imbarazzante. E quando un ragazzo sveglio, curioso e fuori schema viene incasellato come “problematico” solo perché non si adatta all’inerzia della classe, non lo stiamo aiutando: stiamo proteggendo il sistema.
Abbiamo bisogno di meno etichette. Meno schede, meno classificazioni. E di più ascolto, osservazione, cura. La scuola non è un reparto clinico: è un luogo di crescita per cui non serve diventare tutti specialisti in psicopatologia infantile. Serve tornare a essere maestri, nel senso nobile del termine, capaci di distinguere il disagio dalla vitalità. Il sostegno deve restare uno strumento, non un sistema. Perché non è normale che in una società che invecchia si spendano più risorse per ‘normalizzare’ bambini di sei anni che per riqualificare cinquantenni esclusi dal lavoro.
La Lomellina