Scriveva Giuseppe Prezzolini che “quando sono università non sono popolari e quando sono popolari non sono università”. Sostituendo l’aggettivo popolare con l’aggettivo populista, che indica l’inclinazione ad assecondare gli umori della massa contrapponendoli agli interessi delle élite, si ottiene la fotografia tanto corretta quanto scoraggiante della condizione in cui versa oggi l’Accademia italiana.
Nei mesi scorsi, le università di Pisa, di Siena, il Politecnico di Torino e diversi altri atenei hanno improvvisamente deliberato di sospendere i programmi di ricerca scientifica in ambito militare. È stata la risposta, evidentemente ossequiosa, alla mobilitazione antisraeliana dei collettivi universitari. Una risposta che nega la tradizionale neutralità della scienza, ignora le benefiche ricadute civili della ricerca in ambito militare, trasforma le istituzioni accademiche da luogo del dibattito pluralista a luogo della militanza politica. Brutto segno.
Nei giorni scorsi, il Senato accademico dell’Alma Mater di Bologna ha approvato un documento in cui si condanna “il genocidio della comunità palestinese nella striscia di Gaza”, si depreca “l’escalation militare israeliana”, si attribuisce falsamente al governo di Tel Aviv l’infamante pratica dell’”apartheid” ai danni dei cittadini arabi, si mettono in discussione i rapporti in essere con le università israeliane.
Il Senato accademico non un’assemblea studentesca. È l’organismo universitario più autorevole, ci cui fanno parte il rettore, i capi dipartimento, le rappresentanze di professori e studenti. Il Senato accademico dovrebbe occuparsi di organizzare la didattica, delle nomine e delle carriere dei docenti, dell’attività scientifica. Si è invece così ridotto a buca delle lettere di una minoranza organizzata di studenti: quelli che appartengono ai collettivi universitari, ovviamente di estrema sinistra, ovviamente filo palestinesi, tendenzialmente filo Hamas. Non si tratta di una novità.
L’università di Bologna è infatti da anni al servizio del collettivo universitario Cua. Tre fatti. Il primo. Una trentina di militanti del Cua fa irruzione nei locali del rettorato, interrompe una riunione del Cda, urla slogan politici, appende un cartello denigratorio al collo dell’allora rettore Ivano Dionigi mentre il poveretto, atterrito, li supplica: «Le mani addosso no, per favore». Il secondo. Per contenere l’accesso di sbandati e spacciatori, vengono installati dei tornelli all’ingresso della biblioteca di Lettere. Per oltrepassarli occorre essere iscritti all’università. La reazione è violenta. Al grido «riprendiamoci la nostra biblioteca», i militanti del Cua divelgono i tornelli e devastano i locali della biblioteca impedendone l’uso agli studenti. A pochi metri di distanza, in piazza Verdi, un murales considerato intoccabile celebra “la vittoria” dei centri sociali contro la polizia negli scontri del maggio 2013. Il terzo fatto è analogo al primo. Una squadraccia del Cua fa irruzione nella facoltà di Scienze politiche, interrompe la lezione del professor Angelo Panebianco, insulta e minaccia l’autorevole politologo liberale. Un nemico del popolo. In quello come nei casi precedenti il giornale della città, il Resto del Carlino, sollecita diversi docenti dell’Alma Mater a prendere posizione in difesa della legalità, del diritto allo studio, del pluralismo delle opinioni. Nessuno accetta di esporsi. Qualcuno perché d’accordo con i violenti, la maggior parte per paura.
È questo, dunque, lo stato in cui sono ridotte molte università italiane: non più luogo del confronto tra tesi opposte, ma avamposto militante del populismo imperante.
La Lomellina