Perché Mani Pulite ha indebolito la Giustizia

Perché Mani Pulite ha indebolito la Giustizia

I filosofi della storia ci insegnano che se è vero che nessun fatto si produce senza gli antecedenti che lo provocano, è anche vero che questi non lo contengono mai in maniera necessaria, e spesso l’astuzia della Ragione li conduce a risultati imprevedibili.

Qualcuno ha parlato di eterogenesi dei fini. In modo più efficace Schiller ha detto che la pietra lanciata da l’uomo appartiene al diavolo.

L’operazione Mani Pulite, iniziata trent’anni fa, non era nata per caso. I suoi presupposti erano politici ed economici: la caduta del muro di Berlino e la insopportabilità per le imprese dei costi della corruzione.

Su di essi si innestarono altri fattori: il rigoroso procedere dei pubblici ministeri; l’uso severo, e talvolta eccessivo, della carcerazione preventiva e l’ausilio dell’informatica, che consentiva l’adozione rapida di provvedimenti cautelari con la cattura massiccia di imprenditori e politici.

L’attività giudiziaria fu sostenuta e stimolata da una stampa entusiasta, che a sua volta rifletteva l’indignazione di un’opinione pubblica nauseata da tante dissipazioni e ruberie.

In teoria, vi erano i presupposti per una riaffermazione della legalità, una moralizzazione della politica, una liberalizzazione della concorrenza e la fine di una democrazia ingessata, dove due partiti, la DC e il PCI, si sostenevano reciprocamente come due carte da gioco.

Quest’ultimo risultato fu conseguito a caro prezzo perché la frantumazione dei partiti, assecondata dal tramonto delle ideologie, provocò quella confusione che ha condotto il Paese, nell’ultimo decennio ha una sequenza di governi fragili.

Per il resto, la pietra di cui il diavolo si era impossessato ha colpito il precario edificio della nostra Giustizia, e la frantumato.

Se un tempo cittadini nutrivano verso di essa un misto di timore reverenziale e di moderata fiducia, oggi la considerano amministrata da una cassa inquinata dalle correnti e assistita da un’inaccettabile impunità.

Al “verminaio”, emerso è lo scandalo Palamara, fa riscontro una dolorosa litania di episodi deplorevoli: la Procura simbolo di Mani Pulite infarcita di indagati; le dimissioni a catena di membri del CSM sostituiti da altri in guerra fra loro; e via via fino all’insanabile conflitto tra lo stesso CSM e il supremo organo di giustizia amministrativa.

Come se non bastasse, emergono imbarazzanti episodi personali all’interno della Procura che sta indagando Matteo Renzi: il suo capo è stato sanzionato per atti disdicevoli e confronti di una collega; un sostituto, ascoltato di recente da una commissione parlamentare d’inchiesta, è stato clamorosamente smentito su una circostanza fondamentale, con una dichiarazione che in tribunale gli sarebbe costata un incriminazione per falsa testimonianza.

In definitiva, il prestigio e la credibilità della magistratura sono così compromessi che presidente Mattarella ha ritenuto necessario invocare un “recupero di rigore”. E se questo deve essere recuperato, significa che è stato perduto.

Perché si è arrivati a questo? Per due ragioni. La prima, che la politica, intimidita dalle indagini, ha preferito una ritirata codarda a una reazione sorretta dalla legittimazione popolare, e ha strumentalizzato le inchieste per eliminare gli avversari che non riusciva a battere alle urne.

La seconda, che la magistratura, o meglio una sua parte minoritaria esaltata e arrogante, si è ritenuta investita di una missione palingenetica e moralizzatrice, approfittando di una legislazione che le attribuiva poteri immensi svincolati da qualsiasi responsabilità.

L’eccesso della carcerazione preventiva è stato il sintomo più cruento di questa presunzione sfrontata, ma non è stato il solo. Ad esso si sono accompagnate le interferenze nella produzione legislativa, i condizionamenti delle candidature attraverso indagini concomitanti e farlocche, l’estromissione di politici e amministratori con l’uso sapiente dell’informazione di garanzia, e infine, cosa più ripugnante, la divulgazione di conversazioni intime tanto influenti nelle indagini quanto devastanti per l’onorabilità delle persone.

Quelle della ministra Federica Guidi sono state le più per vergognose. Quelle del padre di Renzi sono solo le ultime. Il bilancio di questi trent’anni è dunque fallimentare.

Lo è nell’efficienza, perché i processi sono ancora eterni; lo è per la certezza del diritto, diventata un’astrazione opinabile; lo è nell’imparzialità delle toghe, molte delle quali hanno agito, come emerge dalle rivelazioni di Palamara, per interessi corporativi o addirittura politici; e infine lo è nell’etica minima, perché invece di recitare un atto di contrizione per queste gravi colpe in parole, opere e omissioni, i vertici dell’ANM continuano nella petulante parenesi di una autocertificazione di virtù.

Ora ci stanno profilando alcune timide riforme per curare queste patologie. E’ un po’ poco, dopo gli accorati appelli del Capo dello Stato e della stessa ministra Cartabia per far riacquistare alla magistratura l’onore perduto.

Dovranno essere i suoi stessi componenti, quelli non compromessi con le baratterie meschine e le esaltazioni isteriche a iniziare questa opera di riabilitazione.

Ma dovranno essere cittadini a pretendere che i loro diritti costituzionali non vengano più umiliati da una minoranza di toga arroganti e irresponsabili.

L’occasione si presenta con il referendum, e speriamo che la sappiano cogliere.​

Il Messaggero

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