Non è un buon accordo, non è neanche un accordo. Non è una vittoria e non è una capitolazione. Sui dazi l’Unione Europea è rimasta unita, ha negoziato soltanto la Commissione e ha ottenuto una limitazione dei danni, chiudendo un fronte. I danni ci saranno, a dimostrazione che i nazionalismi recidono come lamette i comuni interessi (atlantici), illudendo i propri. Sono un errore, un atto anche estorsivo che non genera nuovi equilibri ma uno squilibrio pencolante, nel quale ciascuna delle parti proverà a danneggiare l’altra.
Ipocrisie e punti oscuri sono numerosi. Ad esempio: noi europei compreremo più armi, ma le abbiamo sempre comprate ed essendo i soli a mantenere la schiena dritta con l’Ucraina – dopo l’umiliazione che Trump ha arrecato alla storia statunitense – ne discende che ne compreremo di più; al tempo stesso, però, per la nostra stessa sicurezza e proprio a seguito della linea americana, investiremo per produrre all’interno quello che ci serve: quindi quella promessa è la premessa della sua negazione. Compreremo più gas: ovvio, lo stavamo già facendo dopo la giusta rottura con la Russia, ma aumenteremo sia i fornitori che le fonti rinnovabili interne, ergo vale quanto sopra.
Subiamo certamente un danno, in nessun modo giustificato con le cose che la Casa Bianca sostiene da mesi. Non solo non abbiamo in nessun modo approfittato degli Usa, ma essi sono un nostro importante mercato anche per loro convenienza e noi investiamo largamente colà i nostri risparmi. Anche questo dovrà cambiare e se è vero che la svalutazione del dollaro si somma ai dazi quale svantaggio per le nostre esportazioni, è non meno vero che i quattrini estorti con i dazi non compenseranno l’aumento del costo del debito americano, che sia tale dottrina sia la svalutazione spingono a far crescere. Tanto più i dazi daranno gettito quanto più sarà fallito il tentativo di riportare all’inter-no le produzioni e quegli incassi si rifletteranno anche in un (più contenuto) aumento dei prezzi, quindi inflazione.
Il che non avvicina, ma allontana la reclamata (da Trump) riduzione dei tassi d’interessi interni. Noi subiamo un danno, ma gli Usa non ne avranno un beneficio. Con una differenza importante, nel mercato dei consensi: il nostro danno sarà immediato, il loro nel tempo successivo.
Ricorda la Brexit, quando qualche demagogo andava dicendo che tutte le previsioni negative erano sbagliate perché dopo giorni non era successo nulla. Peccato che dopo mesi sono cominciati gli effetti e dopo anni sono divenuti letali, talché chi vinceva le elezioni vantando la Brexit da quella veniva poi travolto. Succederà qualche cosa di simile, ma a noi interessa non la sorte del mendace prepotente, bensì quella della capacità di far crescere la ricchezza.
Qualcuno voleva che si fosse più duri, che l’Ue mettesse gli attributi sul tavolo. Può darsi, ma i dazi li mettono dove il loro governo è sovrano; al più si potevano mettere dei contro dazi, ma in quel modo non si sarebbe negoziato, bensì amplificato l’effetto negativo e protratto un conflitto costoso. Trumpizzare l’Ue non sarebbe servito a fermare l’originale, ma a duplicarne la pericolosità. Eppure si deve rispondere con durezza, ma non a quel tavolo. La minimum tax non sapevamo come incassarla e non è u-na gran rinuncia, ma le regole del digitale devono restare, a difesa dei cittadini europei dagli effetti inquinanti che si possono comodamente scorgere dall’altra parte dell’Atlantico. E dobbiamo correre ad aprire altre aree di libero scambio. Il Parlamento italiano ratifichi subito il Ceta, anche se la sua maggioranza sostenne l’opposto (mentre l’opposizione s’oppone soltanto a sé stessa). Sul Mercosur si proceda a passo di carica. Altre aree del mondo vedranno in noi un punto di riferimento, diffidando giustamente di Washington. Nel pencolare presente questo è il lavoro da farsi, non puntare su ‘compensazioni’ europee la cui richiesta serve soltanto a nascondere quanto fossero inaffidabili gli amici che chi governa si scelse.
La Lomellina