Non regge più la leggenda neoborbonica

Non regge più la leggenda neoborbonica

Tredici morti non sono pochi. L’incendio di due centri abitati non è una vicenda da considerare a cuor leggero. Ma un conto è la storiografia, quella che nasce dallo studio attento e faticoso dei documenti, un altro la dolosa alterazione degli avvenimenti a scopo strumentale. Perché il dramma di Pontelandolfo e Casalduni, paesi della provincia di Benevento dati alle fiamme dall’esercito italiano (non «piemontese», come spesso si sente dire) nell’agosto 1861, non è avvenuto come lo racconta la pubblicistica neoborbonica: non fu un crimine di massa, con centinaia di civili trucidati, paragonabile alle stragi naziste di Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema.

I fatti sono stati ricostruiti con attenzione da benemeriti studiosi di storia locale, ma ora li espone nei dettagli e li inquadra doverosamente nel contesto dell’epoca il sannita Giancristiano Desiderio, collaboratore del «Corriere» e autore di molti saggi, tra i quali uno particolarmente interessante su Bene- detto Croce, edito da Liberilibri.

Nel suo libro Pontelandolfo 1861 (Rubbettino, pagine 150, e 14), di cui è in arrivo una seconda edizione aggiornata, è importante in primo luogo il discorso generale sul brigantaggio meridionale, che fu soprattutto una rivolta sociale di contadini in miseria, con forti componenti avventuristiche e delinquenziali, mentre il mito della sommossa legittimista in nome della dinastia spodestata, sul modello della Vandea, è soprattutto una costruzione di autori reazionari francesi, oggi riciclata e camuffata da controstoria autentica («mai raccontata», come si usa dire) per opporla alle presunte menzogne risorgimentali. D’altronde va ricordato che nessun importante nobile napoletano cercò di mettersi a capo dei briganti, mentre lo fecero, con scarso successo, personaggi giunti dall’estero.

Nella crisi politica e sociale innescata dalla fine del regno di Francesco II, crollato come un castello di carte, Desiderio inserisce la vicenda di Pontelandolfo, invasa il 7 agosto 1861 da una banda di briganti, guidata da Cosimo Giordano, che mise in scena un simulacro di restaurazione borbonica, con diverse soperchierie e quattro omicidi. Giunsero a quel punto nella zona una quarantina di soldati, che finirono in trappola: alcuni vennero uccisi in combattimento, altri eliminati spietatamente dopo la cattura, quando vennero portati nel paese di Casalduni, l’11 agosto. Il loro eccidio è l’unica vera strage di massa compiuta a sangue freddo in quei giorni. Però di solito non se ne parla, o lo si fa di sfuggita.

Poi la situazione mutò con l’arrivo di altre truppe. Gli uomini di Giordano cercarono di tendere un altro agguato al reparto che aveva incendiato Casalduni (dove non morì nessuno perché gli abitanti erano fuggiti), ma vennero colti di sorpresa dall’arrivo di un altro contingente, al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri. E fuggirono. Il 14 agosto i soldati entrarono a Pontelandolfo e appiccarono il fuoco a diverse abitazioni, commettendo anche gravi violenze. Ma i morti elencati nel registro parrocchiale, con i relativi dati anagrafici, sono tredici: un dato che, sottolinea Desiderio, trova conferma anche in alcune testimonianze dirette, mentre le cifre di gran lunga più alte sono ricavate dalla versione dello storico filoborbonico Giacinto De Sivo, che all’epoca stava a Roma e non indica alcuna fonte, o provengono da elaborazioni fantasiose. Documenti contro propaganda: senza nessuna intenzione di sminuire la tragedia che fu la lotta al brigantaggio, Desiderio sfata una leggenda nera durata troppo a lungo.

 

di Antonio Carioti

Corriere della Sera, Giovedì 16 Maggio 2019, pag. 43

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