Semplificando, la si potrebbe mettere come segue. La macchina a vapore ha dato vita alla rivoluzione industriale, che ha dato vita alla classe operaia, che ha dato vita all’ideale socialista… con tutto quello che ne è seguito. Il motore a scoppio ha dato vita al movimento futurista, che ha dato nuova vita al nazionalismo, che ha dato vita al regime fascista… con tutto quello che ne è seguito. La lavatrice ha dato vita alla liberazione della donna, che ha dato vita al Sessantotto, che ha dato vita alla crisi della società borghese e all’eclissi del principio di autorità… con tutto quello che ne è seguito.
Dall’età contemporanea, le innovazioni della tecnica hanno sempre indirizzato e molto spesso plasmato le fasi politiche e sociali nuove: i grandi cambiamenti della Storia e, dunque, della morale e dell’etica privata e pubblica. La domanda, pertanto, è: si può ragionevolmente individuare un legame “storico” tra la rivoluzione digitale e il trumpismo, con tutto quel che ne potrebbe seguire in termini di tenuta dei valori e dei sistemi liberaldemocratici?
È vero che fino a pochi anni fa i grandi capi delle Big Tech erano tutti, indistintamente schierati con i presidenti democratici, da Obama a Biden. Ma ora sono tutti, indistintamente schierati con Donald Trump e, a differenza di quel che è accaduto nella fase precedente, sono entrati nella stanza dei bottoni e più d’uno tra loro sembra condividere la visione “rivoluzionaria” del presidente americano e di quello che passa per essere il principale ideologo del trumpismo, Curtis Yarvin: il filosofo informatico cinquantaduenne filoputiniano fondatore del movimento reazionario Dark Enlightenment (Illuminismo Oscuro) che teorizza la sostituzione della democrazia con un sistema autoritario tecno-feudale, sostiene l’opportunità di “superare la fobia per i dittatori” e dà per scontato che “gli esseri umani si adatteranno a strutture di dominio-sottomissione”.
Yarvin è stato più volte citato come punto di riferimento culturale dal vicepresidente JD Vance. Ed entrambi, Yarvin e Vance, sono legati a filo doppio a Peter Thiel, ieri fondatore di PayPal, oggi membro dell’Intelligence Advisor Board di Trump. A differenza del patron di X Elon Musk, che ama la ribalta, Thiel preferisce agire nell’ombra e da lì condizionare le scelte della Presidenza. “Non credo più che libertà e democrazia siano compatibili”, ha sentenziato nel 2009.
Non lo crede più neanche Mark Andreessen, presidente del principale fondo di venture capital della Silicon Valley e autore nel 2023 del Techno Optimist Manifesto, in cui, citando Marinetti, Nietzsche e il filosofo reazionario britannico Nick Land, celebra la tecnologia come forza liberatrice dell’umanità. Secondo il Washington Post, c’è la mano di Andreessen nelle principali nomine trumpiane.
Non essendo stati governati, i social network hanno in appena un decennio destrutturato le società, restaurato lo Stato di natura, fondato l’Impero delle emozioni, alimentato il nichilismo fomentando la rabbia sociale. Se non sarà governata, l’Intelligenza artificiale darà il colpo di grazia ai processi decisionali basati sulla competenza e sul confronto instaurando il Regno della Statistica, cosi determinando l’irrilevanza dell’etica.
Al netto delle affinità ideologiche tra alcuni capi delle Big Tech e la Casa Bianca, la rivoluzione digitale ha, di fatto, spianato la strada a Donald Trump e al trumpismo. Non demonizzare, ma governare il digitale e promuovere lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale secondo logiche “politiche” e principi etici dovrebbe dunque essere la priorità delle élite occidentali e potrebbe rivelarsi l’unica maniera per scongiurare il radicamento nella società, nelle Istituzioni e nella Storia di quello che diversi studiosi anglosassoni definiscono ormai tecno-fascismo.
C’è, però, un problema. L’influenza della tecnica sulla società si è sempre dispiegata nell’arco di tempi lunghi. Decenni, più spesso secoli. Tempi lunghi che hanno consentito alle élite politiche e culturali di comprendere e di conseguenza governare il cambiamento, metterlo a sistema, adattarlo un po’ alla volta a regole e a valori condivisi. La rivoluzione digitale è un unicum storico per rapidità, vastità e profondità dei cambiamenti che determina sia sulla psiche individuale sia sulle dinamiche sociali. Una trasformazione che oggi appare troppo veloce per poter essere raggiunta dal pensiero lento delle élite politiche e culturali della vecchia e polverosa Europa.