Lezioni per la “Repubblica della mezza pera” a sessant’anni dalla scomparsa di Luigi Einaudi

Lezioni per la “Repubblica della mezza pera” a sessant’anni dalla scomparsa di Luigi Einaudi

Il 18 agosto del 1970, Ennio Flaiano raccontò sul Corriere della Sera un insolito siparietto di cui fu involontario protagonista quasi vent’anni prima durante una colazione al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Scrisse, tra l’altro, Flaiano:

«Il maggiordomo recò un enorme vassoio del tipo che i manieristi olandesi e poi napoletani dipingevano due secoli fa: c’era di tutto, eccetto il melone spaccato. E tra quei frutti, delle pere molto grandi. Luigi Einaudi guardò un po’ sorpreso tanta botanica, poi sospirò: “Io – disse – prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c’è nessuno che ne vuole dividere una con me?”. Tutti avemmo un attimo di sgomento e guardammo istintivamente il maggiordomo: era diventato rosso fiamma e forse stava per avere un colpo apoplettico. Durante la sua lunga carriera mai aveva sentito una proposta simile, ad una cena servita da lui, in quelle sale. Tuttavia lo battei di volata: “Io Presidente”, dissi alzando una mano per farmi vedere, come a scuola. Il Presidente tagliò la pera, il maggiordomo ne mise la metà su un piatto, e me lo posò davanti come se contenesse la metà della testa di Giovanni il Battista…».

Un piccolo aneddoto, ispirato dal quale ci fu chi ipotizzò, allora, la nascita di una “Repubblica della mezza pera”. Un piccolo aneddoto da cui risulta un presidente della Repubblica forte ma semplice, empatico ma parsimonioso, e perfettamente inserito in quella genia di uomini di Stato che, come Marco Minghetti, che prima di lasciare il suo ufficio al ministero delle Finanze ogni sera segnava il livello del petrolio nella lampada per prevenirne il furto, hanno a cuore i conti pubblici prima di ogni altra cosa.

In quanto relatore del disegno di legge che istituisce le celebrazioni per i sessant’anni dalla morte di Luigi Einaudi, ho voluto cominciare con questo aneddoto minore perché mai come in questo cruciale passaggio storico che ci è dato vivere la Repubblica e lo Stato italiano avrebbero bisogno di personalità siffatte.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa rendere onore ai principi fondanti la democrazia liberale, in un’epoca in cui la democrazia liberale viene delegittimata da leader autocratici e non più riconosciuta come un valore assoluto da una quota crescente di cittadini mai come oggi sradicati e spaventati da paure ataviche, la morte e la miseria, perciò naturalmente inclini a barattare libertà reali con protezioni ideali.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa mettere al centro la persona, con le sue insopprimibili libertà e il suo bisogno di una dimensione morale che lo Stato non deve inculcare, ma deve lasciar libera di manifestarsi.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa rendere onore al liberalismo. Che non è una scienza, ma un metodo. Un approccio alla vita e alla politica. Un approccio che Einaudi declinava in chiave etica. “Il liberalismo – scriveva – è la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana… una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo”.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa rendere onore al pluralismo, che è il contrario del populismo, alla libertà di espressione, all’importanza dei corpi intermedi dello Stato contro ogni tentazione collettivista, autoritaria o semplicemente consociativa. Perché, scriveva Einaudi, “il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà e il contrasto”.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa riconoscere l’importanza della formazione individuale per il futuro della Nazione al di là del valore legale del titolo di studio.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa rendere onore non alla legge della giungla, ma alla Regola. La Regola, ovvero la Legge, che disciplina il mercato. Perché, scriveva Einaudi, “se si lascia libero gioco al laissez-faire laissez-passer, passano soprattutto gli accordi e le sopraffazioni dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui”.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa accettare il principio in base al quale lo Stato non deve gestire l’economia, ma regolarne l’equilibrato svolgimento. Significa anche conoscere i limiti strutturali della nostra Pubblica amministrazione, ma non rassegnarsi ad essi. Limiti in ragione dei quali Einaudi, scherzando, amava definirsi “liberista per disperazione”. La disperazione di chi sa di non poter contare su uno Stato efficiente.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa rendere onore al principio della separazione dei poteri. Perché, scriveva Einaudi, “quando la politica entra nella giustizia, la giustizia esce dalla finestra”.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa coltivare il sogno di un’Europa politica. Perché, scriveva Einaudi, “il problema non è tra l’indipendenza e l’unione; è tra l’essere uniti o scomparire”. Ma per essere davvero uniti occorre riempire di sentimento quell’opera della regione chiamata Europa, dal momento che, come scriveva Einaudi, “la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché nata dal timore o dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e dagli ideali umanitari”. Ideali che a sta a noi, oggi, alimentare.

Rendere onore a Luigi Einaudi significa rendere onore a quel cattolicesimo liberale sui cui valori si fonda l’Europa e a quello spirito atlantista che grazie a principi condivisi e storicamente sedimentati unisce come un cordone ombelicale che non può essere reciso l’Europa agli Stati Uniti.

Rendere onore a Luigi Einaudi, il “Presidente della ricostruzione”, significa ricordarsi che altre e più spaventose sciagure capitarono in sorte al popolo italiano e che sempre, unendo le forze in un impeto comune, riuscimmo a superarle.

Insomma, rendere onore, con adeguate celebrazioni, a Luigi Einaudi a sessant’anni della sua scomparsa sarà per gli italiani e per chi più o meno meritatamente li rappresenta in Parlamento l’occasione per rinforzare gli anticorpi ai virus politici e culturali che minacciano la nostra epoca e per trovare, grazie al realismo di cui il metodo liberale è il figlio legittimo, le soluzioni migliori ai giganteschi problemi che sormontano la politica e i governi occidentali.

Se avremo l’umiltà di affrontare questo nostro sforzo nutrendoci di una mezza pera, finiremo probabilmente col poter consumare presto un pasto completo.

di Andrea Cangini – huffingtonpost.it

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