La politica vittima delle burocrazie

La politica vittima delle burocrazie

Perché nessuno fra gli impegnati nella campagna elettorale parla del fatto che la politica rappresentativa pesa oggi molto meno, esercita molto meno potere, delle burocrazie amministrative e giudiziarie?

Perché non si dice che la politica rappresentativa è costretta, quasi sempre, a subire i diktat di quelle burocrazie?

Non lo si dice per due ragioni.

1) La prima è che non puoi chiedere il voto dell’elettore dopo avergli detto che conti poco. Devi invece convincerlo che, se verrai eletto, sarai potente e in grado di fare tutte le cose che hai promesso.

2) La seconda ragione è che se i politici dicessero la verità, ossia che amministrativi e magistrati (di ogni tipo) hanno più potere di loro, non verrebbero creduti dai più. Direbbero gli elettori: non siete voi politici quelli sempre in vetrina e che chiedono il voto? Coloro di cui parlate non hanno volto (con l’eccezione di alcuni attivissimi magistrati portati per le relazioni pubbliche), di loro conosciamo solo le inchieste e le sentenze (se sono magistrati di qualunque ramo) oppure gli effetti — in genere oscillanti, per noi cittadini, fra il fastidioso e l’intollerabile — del quotidiano procedere della macchina amministrativa.

È solo vostra — pensano molti elettori — la responsabilità di ciò che non va. Se non che, i politici si dividono in due categorie: ci sono, da un lato,i complici, al servizio di quelle burocrazie, e, dall’altro, quelli troppo deboli per poter imporre cambiamenti.

Questa storia comincia sul finire della Prima Repubblica quando il vecchio sistema dei partiti entra in crisi. In seguito, arriva Mani Pulite ed è il diluvio. Il prestigio dei politici crolla ai minimi termini (e non risalirà più). È allora che si diffonde quella che chi scrive considera la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo o giù di lì.

Per responsabilità dei politici, ovviamente.

Un’idea che nessuno ha più tolto dalla testa di gran parte degli italiani. Si capisce perché. Alle suddette burocrazie fa comodo che i nostri concittadini lo pensino per tenere sulla graticola la politica rappresentativa, per mantenere deboli, ricattabili e al guinzaglio i politici.

La politica — siamo nei primi anni novanta — reagisce al crollo del vecchio sistema dando il via alla stagione maggioritaria (un modo per rafforzare il governo e contrastare così il vuoto di potere lasciato dai partiti).

Si apre allora un lungo duello fra una politica che cerca di riconquistare il primato perduto e le burocrazie amministrative e giudiziarie che, grazie alla crisi dei partiti, hanno visto crescere i propri poteri e non intendono mollare l’osso.

Credo che l’esito del referendum costituzionale dello scorso anno — con cui la stagione maggioritaria si è definitivamente chiusa — abbia sancito la vittoria di quelle burocrazie. Non è vero che la politica rappresentativa abbia la stessa forza in ogni circostanza.

L’Italia è un esempio dell’oscillazione fra l’onnipotenza (Prima Repubblica) e una debolezza che, in certi ambiti, diventa impotenza.

Per un verso, la politica, come è provato dai tentativi falliti, non ha la coesione e la forza per riformare l’amministrazione o le magistrature. Basta che qualcuno ci provi e gli interessi minacciati sono in grado di mobilitargli contro un’opinione pubblica disinformata e pregiudizialmente ostile alla politica.

Inoltre, quegli interessi dispongono (tra Corte costituzionale e tribunali amministrativi) di mezzi di difesa potenti.

Non c’è possibile riforma del settore della quale non si possa dire che lederebbe qualche «diritto acquisito». E ciò permette di bloccarla. Per un altro verso, anche quando non osa toccare l’organizzazione amministrativa e giudiziaria, la politica ha comunque margini di manovra ristretti.

È persino in discussione la liceità di quella «rappresentanza territoriale degli interessi» che, al netto di ogni retorica, è parte centrale della rappresentanza in tutte, nessuna esclusa, le democrazie. C’è in qualunque momento il rischio che venga catalogata — anche quando non lo è affatto — come illegale (voto di scambio, traffico delle influenze e quant’altro).

Il problema è che quando la politica cede il bastone del comando alle burocrazie amministrative e giudiziarie, un Paese rischia grosso perché esse sanno autotutelarsi ma non sanno governarlo. Lo provano i colpi di maglio giudiziari contro insediamenti industriali o contro l’export (affari di miliardi in fumo per procedimenti giudiziari su presunte tangenti finiti con assoluzioni) o contro lo sfruttamento del patrimonio energetico, che hanno vanificato tante occasioni di sviluppo.

Per non parlare della capacità che ha l’amministrazione di rendere difficilissima la vita delle aziende. Si veda, ancora, cosa riescono a combinare le suddette burocrazie quando mettono le mani sul sistema educativo. Maurizio Ferrera ha raccontato (Corriere, 3 febbraio) della sentenza con cui il Consiglio di Stato (facendosi forte di una decisione della Corte costituzionale) ha proibito i corsi di laurea in lingua inglese del Politecnico di Milano.

Per lesa maestà nei confronti della lingua italiana e perché vengono discriminati gli studenti che non conoscono l’inglese. Quei corsi di laurea sono una buona piattaforma per dare a ragazzi dotati qualche chance in più di trovare un lavoro post-laurea, ma perché mai ciò dovrebbe interessare ai «guardiani delle leggi»? Si noti che il no ai corsi in inglese fa il paio con il «non passi lo straniero» pronunciato contro i direttori non italiani dei musei. Urge, a quanto pare, la rivalutazione di Benito Mussolini: fu lui ad inventare l’autarchia.

Le burocrazie, amministrative e giudiziarie, spadroneggiano. I politici o sono al loro servizio o sono troppo deboli per tenerle a bada. Lasciate a se stesse quelle burocrazie ci preparano un futuro di autarchia e di declino economico e culturale. Chi fosse interessato a far restare il Paese nel mondo moderno dovrebbe porsi il problema di come tagliare loro le unghie. [spacer height=”20px”]

Angelo Panebianco, “Il Corriere della Sera” 7 febbraio 2018

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