La pena delle pene

La pena delle pene

Inutile innalzare gli anni di carcere nel tentativo di limitare i reati e disincentivare i criminali. Non è una tesi nuova: la sostenne Cesare Beccaria nel diciottesimo secolo e lo dimostrò, in maniera impareggiabile, suo nipote Alessandro Manzoni…

Per cercare di fermare o, almeno, disincentivare il crimine, l’esistenza dei criminali e i reati non serve proprio a niente minacciare decenni di carcere. In altre parole, alzare le pene.

Non è una tesi nuova, lo sosteneva Cesare Beccaria nel XVIII secolo. Lo dimostrò spiegandolo in maniera impareggiabile suo nipote, un tale Alessandro Manzoni, nel primo capitolo dei Promessi Sposi, quando prese mirabilmente in giro le “gride”, che erano le leggi spagnole della Milano di allora: erano tante, sempre terribili, sempre tonitruanti. Però quasi nessuno le conosceva. Nessuno le osservava.

Quindi, quello che serve veramente è assicurare la certezza della pena o, comunque, la ragionevole probabilità che un criminale ha di essere condannato. Questo disincentiva il crimine. Mentre vengono promessi 50.000 anni di carcere, ma la probabilità di essere condannato è una su un milione, la cosa lascia abbondantemente il tempo che trova.

Non bisogna pensare che la giustizia penale sia la soluzione per tutto. Portare tutto sempre al penale, avere sempre la galera come minaccia è un errore. Anche questa tesi è largamente presente in scuola e, soprattutto, è il pensiero di un tal Carlo Nordio, attuale Ministro della Giustizia.

È un giurista raffinatissimo, è un cultore del diritto. Anzi specificava Carlo Nordio – grazie alla sua esperienza di Pubblico Ministero – che se si continua ad alzare la pena il risultato è che il giudice di merito, cioè quello che deve irrogare la pena, che deve condannare e stabilire a quanto ammonta la pena, finisce inevitabilmente col buttarsi sul lato basso, sul lato inferiore della pena, perché quello maggiore è irragionevole.

Tutto questo, ripeto, è pacifico in scuola e nella realtà. Ma quando parte la propaganda politica nulla è più irresistibile dal fare nuove leggi, immaginare nuovi reati e proporre l’aumento delle pene, perché è un modo per raccontare all’opinione pubblica che si tiene il pugno duro.

Poi, ripeto, la realtà va abbastanza per i fatti suoi. Guardate cosa è successo all’ormai celebre rave party nei pressi di Modena: se ne sono andati tutti con la coda fra le gambe e se ne sono andati non in ragione del pugno duro, ma di un intervento molto ragionevole, per il quale bisognerebbe solo che complimentarsi con le autorità locali, che sono intervenute dicendo: “Qui ci sono delle mura pericolanti, correte un rischio enorme. Naturalmente, se succede qualcosa, la responsabilità e di chi organizza. Che vogliamo fare?”

Se ne sono andati. ci si ricordi di questo, perché sono passaggi importanti per gli organizzatori di quella roba lì possono essere – e, secondo me, devono essere – portati in giudizio anche senza il bisogno di nuove leggi. Hanno occupato suolo di altri, pubblico o privato che sia, senza autorizzazione. Hanno occupato un immobile di altri, senza alcuna autorizzazione e, per giunta, senza rispettare le norme di sicurezza e quelle igienico-sanitarie. Lo hanno fatto a scopo di lucro, perché vendevano i biglietti per l’ingresso. Ancora, si trattava di un ambiente in cui erano liberi ed abbondanti lo spaccio, il commercio e l’uso di droga.

Voglio dire: ce n’è di che far processi. Il tema è: funziona la giustizia? Ecco quest’ultimo capitolo sembra essere la cosa più difficile da spiegare agli elettori, ai cittadini, al popolo. Nessuno si può prendere questo mestiere. Vogliono tutti prendersi il mestiere o della comprensione o del punire duramente.

Ma a che serve se la giustizia non funziona? La delinquenza organizzata è più alta, dove la giustizia funziona meno. Questo sembra essere un argomento negletto. Da questo potete capire come va a finire al prossimo giro: nuove pene, nuovi reati, nuove severità. Però lo spaccio continua in tutte le piazze d’Italia.

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