La lettera e l’abracadabra

La lettera e l’abracadabra

La lettera era scontata, la risposta sarà interessante. Era scontata perché il rilievo fatto è vero ed evidente: si era assicurato che il debito pubblico sarebbe sceso e invece è salito, passando dal 131.4% del 2017 al 132.2 del 2018. Ed era scontata perché anziché impelagarsi nell’ennesima discussione sulle previsioni, dato che anche per l’anno in corso il governo ha garantito (e inserito nella legge di bilancio e nel documento di economia e finanza) che scenderà mentre invece salirà, tanto vale andare sulle cose certe e oramai rendicontate.

La risposa sarà interessante perché esistono due strade, che si biforcano non per sincerità e credibilità, ma per direzione: affermare che sì, è vero, ma anche spiegabile, che ci sono stati inciampi, che ha pesato (eccome) l’aumento dei tassi d’interesse, da noi provocato ma da noi non voluto, e che le cose andranno diversamente e i risultati di fondo saranno ugualmente conseguiti; oppure sostenere che sì, è vero, ma trattasi di poco e nulla rispetto a quello che ci accingiamo a fare, avendo proclamato all’universo mondo che quei limiti di deficit e debito vogliamo infrangerli, sorretti dall’entusiastico consenso degli elettori.

Nel primo caso si è nell’ordinario tran tran. Nel secondo sono le parole di Matteo Salvini che diventano dottrina di governo, consistente nella volontà di alzare il livello dello scontro. Una teoria che dice: siamo malati di troppo debito, ma non guariremo mai se non facendo dell’altro debito, con il quale non facciamo investimenti, ma consegniamo capacità di spesa agli italiani e loro, spendendo, faranno lievitare il prodotto interno lordo, in questo modo facendo scendere il peso percentuale del debito. Una specie di abracadabra cui (spero) non crede neanche chi lo dice. A quel punto la replica della Commissione europea sarà dura, ma anche irrilevante, perché a quel punto quel che conterà sarà la reazione razionale del mercato: se volete altri soldi li pagate sempre di più.

Sarà il caso di ricordare che, attualmente, paghiamo 65 miliardi l’anno d’interessi, grazie alla Banca centrale europea, perché eravamo arrivati a pagarne 20 di più. Uk ne paga 59, la Francia 40, la Germania 30 e la Spagna 29. Paghiamo il 20% della spesa complessiva Ue per interessi sul debito pubblico. Il 3.7% del nostro pil (l’anno prima dell’euro eravamo scesi al 5.7, che era già assai meno della media anni 90, avendo sfiorato anche il triplo). La Francia paga l’1.7, la Germania lo 0.9 e il Portogallo il 3.5. Lo spread è diventato una battuta da bar, ma pur essendo assai più basso di quando c’era la lira è comunque triplo rispetto alla Spagna e più che doppio rispetto al Portogallo. Una cosa abominevole, che ci siamo costruiti parlando a vanvera e lasciando correre il debito, nonché un pesante svantaggio competitivo. Il dato mortale è inequivocabile: il tasso d’interesse sul debito è superiore al tasso di crescita, vuol dire che più ci indebitiamo e più perdiamo.

Ma la perversione più insidiosa consiste in un abbaglio. C’è chi pensa: a. che si possa stare nell’euro prendendone i bassi tassi d’interesse e rigettandone la disciplina di bilancio; b. che i soli a potere scegliere se ci conviene andare via siamo noi. La prima cosa è una presa in giro, di cui alla lettera. La seconda un’illusione, perché c’è anche la possibilità che si faccia sul serio una riforma strutturale dell’area dell’euro, lasciando fuori chi non ci sa stare. Dall’euro non si può decidere se stare fuori, ma ci si può trovare fuori.

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