Il «paradosso della società aperta» e il Piano Marshall per l’Africa

Il «paradosso della società aperta» e il Piano Marshall per l’Africa

L’Europa è alle prese con molte sfide simultanee, variamente intrecciate, ed è questa simultaneità che rende così difficile fronteggiarle. C’è la crisi dei legami interatlantici che, a sua volta, esaspera la crisi europea. Ci sono le ricadute negative su settori, cospicui anche se non maggioritari, delle opinioni pubbliche dovute alla generale constatazione dei difetti dell’Unione. C’è una crisi di leadership che ha colpito, in un modo o nell’altro, tutte le grandi democrazie europee. A queste sfide ne va aggiunta un’altra: il «paradosso della società aperta».

Vediamo in che consiste. Prendiamo il caso di una società che definiamo «aperta» (o libera), ossia fondata sul primato della libertà individuale, sull’economia di mercato, sulla democrazia politica, eccetera. Messa di fronte alla prospettiva di quelli che vengono percepiti come probabili, massicci, flussi migratori di un futuro vicino, una società di tal fatta può reagire in due modi. a) Può fare la scelta di chiudere (o di tentare di chiudere) più o meno ermeticamente le frontiere. Ma se lo fa il serio rischio che corre è di perdersi: se chiudi le frontiere alle persone rischi, prima o poi, di chiuderle alle merci e poi anche alle idee. Perdi la capacità di innovare e di rinnovarti. Declino demografico e decadenza economica marceranno insieme. Ne conseguirà il passaggio dalla società aperta alla società chiusa. Si passerà dalla economia (più o meno) di mercato alla economia (più o meno) statalizzata, dalla democrazia rappresentativa all’autoritarismo (più o meno mascherato da democrazia plebiscitaria). Oppure b) quella società può fare una diversa scelta: decide di non chiudere le frontiere. Prima o poi la prevista massiccia immigrazione si realizzerà davvero. A quel punto delle due l’una: o ci sarà un contraccolpo politico, una svolta autoritaria, oppure la crescente presenza di gruppi con tradizioni differenti innescherà feroci e interminabili conflitti di civiltà: infatti, mentre una parte dei migranti si adatterà agli usi della società ricevente, un’altra parte, soprattutto a partire dalle seconde generazioni, non lo farà.

Il paradosso della società aperta consiste dunque in questo: quale che sia la scelta (chiusura delle frontiere o no), almeno in linea di principio, l’esito finale sarà comunque la distruzione della società aperta. C’è un modo per sfuggire a questo destino? Per quanto riguarda noi europei la risposta dipende da come evolveranno i nostri rapporti con il continente africano. Le proiezioni demografiche sono impressionanti. Ci si aspetta che l’Africa raddoppi la propria popolazione in pochi decenni. È possibile, secondo certe stime, che nel 2050 un quarto degli abitanti del pianeta sia africano. Contemporaneamente, l’Europa, sia pure con differenze fra i vari Paesi (l’Italia si è guadagnata un triste primato), è complessivamente in flessione. Si ha un bel dire che i «numeri», oggi, smentiscono quelli che parlano di «invasione» dall’Africa. Certo che in questo momento non c’è alcuna invasione. Ma l’attesa generale è quella di flussi migratori sempre più consistenti verso la ricca Europa nei prossimi anni e decenni. Basterebbe questa attesa a spiegare perché in quasi tutti i Paesi europei siano sorti partiti anti migranti e abbiano mietuto consensi. Se si fosse ricorso in tempo a misure per controllare gli ingressi in Europa prima che i mercanti di schiavi scoprissero il remunerativo business delle migrazioni clandestine, forse le cose starebbero ora diversamente. Comunque sia, la frittata è fatta: il «paradosso della società aperta» è incombente e non sarà facile eluderlo.

La salvezza della società aperta europea, se ci sarà, dipenderà da un eventuale, massiccio, sviluppo economico dell’Africa: così massiccio da assorbire gran parte della prevista espansione demografica (ma anche tale da porre le condizioni per una successiva contrazione dei ritmi di crescita della popolazione). Gli europei hanno delle eccellenti ragioni egoistiche per desiderare che in Africa — anche in quelle parti dell’Africa ove non ve ne siano ancora i segnali — ci sia un vigoroso sviluppo economico. La consapevolezza di ciò spiega perché circolino idee poco realizzabili o, se realizzabili, pericolose e controproducenti. Ogni tanto, ad esempio, si sente qualche politico europeo evocare un «piano Marshall» per l’Africa. Ma l’Europa non è l’America del dopoguerra, né l’Africa è l’Europa di allora. Il cosiddetto piano Marshall servirebbe solo a riempire di quattrini le tasche di ras locali corrotti, signori della guerra e simili.

Lo sviluppo non dipende dagli «aiuti allo sviluppo», comunque definiti e mascherati. Dipende dall’esistenza di istituzioni (sociali, economiche, politiche) locali solide, in grado di generare ordine: quell’ordine che serve alle persone per intraprendere, lavorare, investire i propri risparmi, eccetera. Il problema però è che nessuno sa bene come si fa a costruire istituzioni solide là dove non esistono. Nell’attesa di scoprirlo, quello che gli europei possono fare per l’Africa (e quindi per se stessi) è non lasciare alla Cina campo libero negli investimenti. Conviene ai Paesi europei scommettere sul futuro dell’Africa e investirvi molte risorse. Per un vantaggio a breve scadenza: ampliare la propria presenza in un mercato in espansione. E per un vantaggio a lungo termine: tutelare la società aperta europea.

Angelo Panebianco, Corriere della Sera 17 dicembre 2018

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