“Ho urlato, ma non ho pianto”, le ultime parole di Yalda

“Ho urlato, ma non ho pianto”, le ultime parole di Yalda

Le amiche di Yalda cantavano: “Questo fiore è un dono per la nazione”.

Dopo la cerimonia di fine lutto celebrata nella moschea di Sa’adatabad, nell’estrema periferia nord di Tehran, nel 40° giorno dalla sua morte, parenti e amici della diciannovenne Yalda Aghafazli, si sono riuniti all’aperto e hanno scandito slogan anti-regime. Le forze di sicurezza hanno lanciato gas lacrimogeni al peperoncino, bombe stordenti e proiettili di gomma per disperdere la folta folla che vi si era radunata.

Yalda era una giovanissima ed energica artista arrestata il 26 ottobre 2022 durante le proteste che erano divampate a Tehran.

Alcune organizzazioni umanitarie come Hengaw, avevano riferito che Yalda aveva trascorso quattro giorni nel famigerato carcere di Evin e che poi era stata successivamente trasferita nella prigione di Qarchak, dove è stata ristretta per altri 11 giorni.

In un messaggio audio inviato alla sua amica del cuore subito dopo essere uscita dalla prigione di Qarchak, Yalda aveva confidato che non era nemmeno lontanamente possibile immaginare quanto fossero orribili le torture che venivano inflitte alle giovani detenute. Lei ha rivelato che è stata picchiata duramente in prigione per estorcerle la confessione di reati mai commessi.

“Sono stata picchiata per 12-13 giorni consecutivi. Come vedi, la mia voce è diventata rauca perché ho urlato dal dolore per tutto il tempo delle torture subite”, aveva riferito Yalda con la voce rotta dal pianto e singhiozzando alla sua amica.

“Hanno scritto nella mia cartella, ‘il condannato non ha espresso rimorso’, e io ho confermato: ho detto di sì, è così. Non esprimerò mai alcun rimorso”, ha riferito Yalda.

“Ho solo urlato, ma non ho pianto, ecco perché la mia voce è così rauca. Non posso dirti altro da qui, ma cerca di capirmi. ‘Ahi, la mia schiena, Ahi, che dolore!’. Te lo dirò quando ci vedremo faccia a faccia cosa mi hanno fatto. Ti dirò tutto”, ha concluso così Yalda il drammatico messaggio per la sua cara amica.

Yalda era stata rapita mentre tornava nella sua casa di Tehran dopo aver scritto slogan contro Khamenei su un muro della città.

Il 6 novembre, dopo 12 giorni di pene di inferno è stata rilasciata e due giorni dopo, l’8 novembre è stata trovata morta nel suo letto.

La povera Yalda era distrutta dal dolore e dalle umiliazioni per le orribili violenze carnali subite.

La magistratura sostiene che Yalda è morta per una overdose di droga. Ma una fonte vicina alla sua famiglia ha contestato tale affermazione.

I test tossicologici non stati resi pubblici e forse non sarebbero stati nemmeno effettuati.

Gli agenti di polizia che avevano perquisito la sua abitazione non hanno trovato alcun indizio a conferma della tesi della magistratura iraniana e nemmeno il rapporto dell’autopsia aveva accertato che la causa della sua morte fosse dovuta a overdose.

La povera Yalda non è stata l’unica ragazza a morire dopo essere stata liberata dalle famigerate prigioni iraniane. Anche Arshia Emamgholizadeh, un ragazzo di 16 anni, poco dopo la sua liberazione è stato trovato morto. La sua famiglia sostiene che gli sarebbero state “somministrate pillole psicoalteranti in prigione dopo essere stato ripetutamente violentato”.

La mamma piangeva sulla sua tomba dicendo: “Non avevi tendenze suicide, cosa ti hanno fatto in prigione?”

Yalda era combattiva, era una delle tantissime adolescenti che sognava di vivere e divertirsi come le sue coetanee di New York, di Los Angeles e di Parigi. Non era disposta a compromessi: “La vita è tale, è bella e degna di essere vissuta se c’è la libertà di scegliere e di decidere come viverla” Hanno spazzato via la vita di Yalda e con essa il suo sogno di libertà e di felicità.

Giovani uomini, donne e studenti universitari, in particolare, sono stati in prima linea nelle proteste innescata dalla morte di Mahsa Amini, ventiduenne curda di Saqqez, massacrata di botte fino alla morte nel furgone della “polizia morale” dopo essere stata arrestata per non aver indossato correttamente l’hijab.

Il movimento si è trasformato nella più grande sfida per la Repubblica islamica dalla rivoluzione del 1979.

Le forze di sicurezza della Repubblica islamica hanno ucciso almeno 800 manifestanti nel corso dei 200 giorni di rivolte, tra questi circa 100 minori, secondo organizzazioni non governative per i diritti umani, come Hengaw che monitora la repressione del dissenso in Iran. Le stesse autorità iraniane hanno ammesso di aver arrestato oltre 22 mila persone durante la repressione.

Anche in questi primi giorni del nuovo anno iraniano il prezzo più pesante in termini di vite umane e di violenze subite lo stanno pagando le popolazioni del Kurdistan iraniano e del Sistan-Belucistan, cioè le minoranze etniche e religiose, le popolazioni della periferia del paese, vero motore di questa ribellione per la liberazione dell’Iran dal regime teocratico. Nelle aree popolate dai curdi la tensione è salita notevolmente di grado quando nei giorni del Nowruz i manifestanti si sono riuniti nei cimiteri per commemorare le vittime della repressione dopo i quaranta giorni di lutto.

Torture, stupri, rapimenti, avvelenamenti, detenzione in isolamento, sono le orrende pratiche messe in atto dalle autorità iraniane nel tentativo di soffocare le rivolte.

Il 21 marzo lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite, Javaid Rehman, ha dichiarato al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra che la feroce repressione delle autorità iraniane contro giovani cittadini, anche minori, sottoposti a torture, stupri e ad avvelenamenti potrebbe equivalere al compimento di “crimini contro l’umanità”.

“Invece di chiamarci ‘contestatrici’ ci chiamano ‘provocatrici’ o ‘terroriste’ che muovono guerra contro Dio”, dicono le adolescenti che lottano per la libertà dell’Iran.

“Ci prendono di mira, anche se siamo a mani nude. Ci feriscono, torturano, ci stuprano, ci accecano, ci avvelenano o ci ammazzano. Ci hanno stuprate nelle prigioni e torturate mentalmente per spingerci al suicidio una volta uscite dal carcere. Minacciano le nostre famiglie perché dicano che ci siamo drogate, che ci siamo suicidate o che ci siamo buttate nel vuoto”.

Le proteste nascono da una lunga storia di movimenti per i diritti delle donne e di attivismo in Iran. Le cittadine iraniane da anni elaborano strategie per sfidare la discriminazione di genere, sia in politica che nella società.

Nata e guidata da donne, la rivolta attraversa le divisioni di genere, quelle di classe e di etnia e rappresenta la più seria sfida popolare ai leader teocratici e a qualsiasi tipo di autocrazia, sia laica che religiosa.

A scendere nelle piazze sono i giovani del movimento, le minoranze etniche e religiose e la cosiddetta “Generazione Z”, quella dei ventenni, quella che non ha nulla da perdere; una generazione che rifiuta l’ipocrisia di vivere la libertà solo nello spazio privato e la rivendica ovunque, a cominciare dallo spazio pubblico.

 

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