Giù il petrolio, su il deficit: il dissesto dell’economia di guerra russa

Giù il petrolio, su il deficit: il dissesto dell’economia di guerra russa

Con un investimento che ha recentemente toccato la quota del 6,3% del Pil, la spesa militare russa è ormai tornata ai livelli record della Guerra Fredda. Un esborso obbligato per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina, ma la cui sostenibilità, giunti al quarto anno di conflitto, si scontra con una congiuntura in vistoso affanno, che presenta ormai i connotati propri di un’economia di guerra.

Non bastano più gli idrocarburi a togliere le castagne dal fuoco a Mosca; al contrario, è proprio il costo del petrolio a inchiodare i conti pubblici russi. Il Ministero delle Finanze, infatti, si è visto costretto a ritoccare sensibilmente a ribasso le stime del costo del barile, sceso bruscamente dai 70 ai 56 dollari. Tanto è bastato a prevedere un allarmante aumento del deficit di bilancio, cresciuto in breve tempo dallo 0,5% all’1,7% del Pil, eccedendo anche le stime che lo calcolavano all’1,5%. È la conseguenza diretta del crollo delle entrate fiscali da idrocarburi, che solo a marzo hanno registrato un sonoro -17% su base annua e che, stando alle previsioni, si contrarranno del 24% nel 2025. Una testimonianza, certamente, dell’efficacia del price cap imposto sul greggio russo dall’Occidente, ma anche di quanto l’economia del Paese sia ancora di stampo “fisiocratico”, asservita alle fluttuazioni del mercato dell’energia per incapacità di differenziare a sufficienza nei settori non-oil.

Ad aggravare il dissesto dei conti vi sono poi i dati sul rallentamento della crescita. Infatti, uno studio di Goldman Sachs stima che, dal robusto 5% rilevato a fine 2024, questa si sia pressoché azzerata nei primi mesi del 2025. Sono gli effetti della guerra commerciale in atto tra Trump e il resto del mondo, che ha risparmiato Mosca nell’applicazione diretta di dazi, ma che non la rende immune dagli esiti di larga scala sui commerci globali e sulla domanda di carburante.

Ciononostante, dal Cremlino non trapela alcuna intenzione di contenere le commesse militari. Al contrario, dal dicastero delle Finanze giunge chiara l’intenzione di tirare dritto, con un aumento della spesa pubblica di oltre 9 miliardi di euro, a scapito di cittadini e imprese che sono già chiamati a sostenere una pressione fiscale più elevata, alla luce del recente rincaro delle imposte sui redditi delle persone fisiche e sui profitti delle aziende. Tasse, queste, che vedono gli economisti concordi nel prevedere ulteriori aumenti nei mesi a venire, al fine di scongiurare dissesti di bilancio ancor più severi.

Nel frattempo, l’inflazione galoppa oltre il 10% e la crescita della produzione industriale è crollata dal 2% allo 0,2%. A deprimere ulteriormente gli investimenti, ad aprile i tassi di interesse della banca centrale hanno raggiunto il 21%: il dato più alto riportato dai primi anni 2000.

A completare il quadro di “bellicizzazione” dell’economia nazionale, ci sarebbe la volontà, esplicitamente dichiarata dal viceministro delle Finanze Chebeskov, che “entro il 2030 il 40% dei risparmi dei russi diventi a lungo termine”, leggasi titoli del debito pubblico russo, in quanto unici strumenti di investimento di tale genere rimasti nel Paese: di fatto, una nazionalizzazione silenziosa del risparmio come ultima frontiera di finanziamento di uno sforzo bellico sempre più estenuante, che si somma alla fuga di capitali, al collasso del commercio estero e all’embargo tecnologico. In un contesto di stimata stagflazione, appare evidente come la crescita sostenuta degli anni precedenti, trainata dalla cavalcata dell’industria bellica, mostri ora i segni di cedimento e il vero volto di ogni economia di guerra, in cui il costo degli armamenti è sopportato da una popolazione sempre più provata e impoverita.

Share