Futuro remoto

Futuro remoto

Come la didattica digitale non è la Dad, la didattica a distanza, così il lavoro da remoto non è il surrogato dal tinello, figli dell’era covid. Il virus è stato un formidabile acceleratore, ma l’approdo non è nell’acconciarsi al meno in assenza del più, bensì nel cogliere l’occasione per puntare a molto di più.

Sul lato scolastico il quadro è desolante: una classe mandata a casa oggi si trova nella stessa condizione in cui si trovava un anno fa. Invece la didattica digitale ci dovrà essere sempre, è un pezzo del futuro, che non cancella né la classe né la magia dei libri, ma offre un’opportunità in più. Ci si deve attrezzare e costa meno di quanto si fa dilapidare alle famiglie, ogni anno, in libri di testo che libri non sono e fanno testo solo nel succoso bilancio dei presunti editori. Sul lato del lavoro, l’accordo firmato da sindacati e organizzazioni datoriali, sotto l’egida del governo, segna un buon passo in avanti.

Per non chiamarlo in inglese, smart working, l’anno chiamato “lavoro agile”. Far questioni di nomi non serve a nulla, ma non capisco in cosa sia agile: è lavoro, sodo, svolto in una sede diversa da un ufficio. Questo giornale è realizzato interamente da remoto: ciascuno di noi resta dove si trova, ma si fanno riunioni, si scrive e controlla, s’impagina e si manda in stampa, o si pubblica on line, restando distanti. Può perderne la socialità, ma fino a un certo punto. Di sicuro costa meno soldi e meno tempo. Questo modello resterà nel futuro, anche quando potremo baciarci fra sconosciuti in un’orgia di socialità, perché è comodo, produttivo e conveniente. Il sistema produttivo e amministrativo lo sa bene, come confermano i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano: rimarrà o lo si adotterà per il 62% della pubblica amministrazione e l’89% delle grandi imprese. Occhio alle piccole che dovessero restare indietro, perdendo terreno.

Il registro presenze dell’era del pennino, il cartellino da timbrare nell’era fantozziana, il badge per entrare e uscire, sono forme di controllo pur necessarie, ma che nulla hanno a che vedere con la produttività. Non impensieriscono i dipendenti che vanno a fare la spesa, preoccupano quando languono in ufficio e s’industriano a render complicata la vita altrui. Il lavoro da remoto, posto che non è una scelta esclusiva, ma si affianca alla concentrazione fisica, presuppone che chi dirige la baracca sappia esattamente cosa ciascuno dei collaboratori deve fare. Che ci riesca in poco tempo o che gliene occorra più dell’orario d’ufficio, sono affari suoi. Quello che conta è il risultato. Il che responsabilizza e umanizza.

C’è un altro aspetto, che si fa male a sottovalutare: aumenta il potere contrattuale del collaboratore, o dipendente che dir si voglia. Nel mondo fisico non puoi lavorare alla contabilità di un’azienda e, nel frattempo, coltivare dall’ufficio i rapporti con altri dove potresti essere pagato di più, nel mondo digitale sì. Il che richiede lo svolgimento di lavori niente affatto meccanici o ripetitivi, ma basati sulla conoscenza. Per questo la didattica digitale deve essere il propellente del lavoro digitale. Ed è raccapricciante che, fra forze politiche e sindacali, non si capisca che una scuola non meritocratica e non selettiva è una solenne fregatura per gli ultimi, che resteranno ultimi usando i terminali digitali per far cretinate, mentre altri li useranno per disboscare il sentiero della propria ascesa. Lavorativa, professionale e reddituale. Perché tutti aspiriamo a star sempre meglio, come tutti vorremmo essere i più veloci nella corsa e i più intonati nel canto. La scuola dovrebbe servire a indirizzare e ad attrezzare i talenti. Il soldo non è il solo metro, ma misura le cose con buona efficienza.

Tutto ciò cambia società e famiglia. Creerà problemi di adattamento, ma si starà meglio. Con più tempo per sé e i propri cari. Certo, il virus ha portato anche un crollo dei pranzi di lavoro. A dirla tutta: si sta bene e si mangia meglio. Però vediamoci, magari per una bella partita a carte.

La Ragione

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