In Italia, la pressione fiscale reale si attesta ormai sopra il 47% del Pil: un dato che condanna le nostre imprese a subire un carico fiscale complessivo particolarmente elevato, prossimo al 60%. A un fisco asfissiante, occorre poi sommare il costo degli adempimenti burocratici, di circa 80 miliardi di euro l’anno. Dati, questi, che giustificano la posizione poco lusinghiera dell’Italia nell’Indice di Libertà Economica 2025 della Heritage Foundation, in cui il nostro Paese risulta ottantunesimo su 184 Stati: un piazzamento da economia solo “moderatamente libera”.
È innegabile che le imprese italiane si affaccino ai mercati globali con un evidente svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti di molti Paesi in cui il peso della “mano visibile” dello Stato è meno oppressivo. Una penalizzazione su cui da domani, primo agosto, si abbatterà anche la scure dei dazi reciproci al 15% sugli scambi tra UE e USA, salvo sorprese e dietrofront della Commissione in “zona Cesarini”. Nel peggiore degli scenari, senza esenzioni su farmaci, microchip e altri beni strategici, la guerra commerciale dovrebbe comportare un costo stimato da Formez in circa 8,6 miliardi l’anno per il nostro tessuto produttivo. Una cifra che, ipotizzando le esenzioni, si ridurrebbe a una forbice tra i 6,7 e i 7,5 miliardi nelle previsioni di Unimpresa, che pure comporterebbe una seria ricaduta sul Pil, tra il ‑0,15% e il ‑0,4%. Stime decisamente prudenti, rispetto a quelle ben più cupe di Confindustria, che valuta l’impatto oltre i 22 miliardi, adeguandolo alla svalutazione dollaro-euro.
Comprensibile la preoccupazione del Presidente Emanuele Orsini, secondo cui, in fatto di dazi, “tutto quello che è oltre allo zero è un problema”. La stangata è inconfutabile, così come lo sarà l’inevitabile contraccolpo occupazionale nei settori più esposti: la moda, il chimico-farmaceutico, l’agroalimentare. È in siffatto contesto che si fa largo un’ipotesi peregrina: quella di elargire “sostegni e compensazioni” alle imprese, per citare lo stesso Orsini. In altre parole, si rievocano i ristori: termine che riporta alla memoria la sciagura del covid, per una proposta che incassa il consenso di molti, tra associazioni di categoria e parti sociali; magari finanziandola con altro debito, chiedendo a Bruxelles una deroga al Patto di stabilità, magari deviando le risorse del Pnrr. Una linea che ha fatto breccia anche nel Governo, con l’istituzione di una task force per valutare entità e modalità delle compensazioni, tra cui l’ipotesi di dirottare 25 miliardi, appunto, dai fondi europei.
Al di là dei risvolti infausti per le finanze pubbliche, uno schema di ristori finirebbe per propagare una nuova, ennesima, assuefazione del tessuto produttivo all’intervento statale, rendendolo meno resiliente di fronte a quei rischi d’impresa – pandemie, calamità naturali o mutate condizioni geopolitiche – che non è possibile azzerare, né sarebbe auspicabile farlo a spese dei contribuenti. C’è chi, nella nostra classe imprenditoriale, se ne dimostra ben consapevole, come Massimo Mota, Presidente dell’Associazione Generale Cooperative Italiane, secondo cui i sostegni straordinari si rivelerebbero “azioni di corto respiro”, auspicando, al contrario, l’accelerazione su innovazione, ricerca e internazionalizzazione verso nuovi mercati.
I dazi, di per sé, non rappresentano certo un’opportunità. Tuttavia, optare per una nuova politica di intervento nell’ordine delle decine di miliardi significherebbe perdere l’occasione per sostenere le imprese non con trasferimenti diretti, ma alleviando il peso di quelle barriere, stavolta non doganali, che l’Italia impone a se stessa da decenni e che, storicamente, rappresentano la principale zavorra alla competitività della nostra industria: la burocrazia, il fisco vessatorio, l’eccesso di regolamentazione. Donald Trump, salvo forzature costituzionali, è al suo secondo e ultimo mandato. I dazi non sono eterni, mentre le riforme strutturali a vantaggio del Paese avrebbero, invero, un orizzonte temporale di lungo termine.