L’Italia è un Paese di anziani. La demografia parla chiaro: un italiano su quattro ha più di 65 anni, ossia è in età pensionabile. È la percentuale più alta nell’UE, con l’ISTAT che ne stima l’ulteriore crescita nel prossimo decennio. Saranno 6,1 milioni i nuovi pensionati entro il 2035: un’uscita in massa dalla popolazione attiva senza nuovi lavoratori pronti a subentrare e che mette a dura prova la tenuta del sistema welfaristico, previdenziale e sanitario. Entro il 2040, infatti, crescerà di oltre 4 milioni il numero di anziani non autosufficienti che richiedono assistenza continuativa.
I giovanissimi sono in via di estinzione, come sancito dall’indice di vecchiaia, rapporto tra la popolazione over 65 e quella tra gli 0 e i 14 anni: nel nostro Paese si attesta al 199,8%, segnando un allarmante +64% negli ultimi venti anni. Nel frattempo, nel primo semestre del 2025 sono nati 12.000 bambini in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno; un crollo del 7% che lascia presagire un nuovo record negativo di nascite. Il numero di figli per donna, sceso a 1,18, segna anch’esso il minimo storico, penultimo tra i grandi paesi europei dietro la sola Spagna. All’inverno demografico e alla denatalità si somma l’esodo degli italiani, soprattutto giovani, verso migliori lidi: dal 2014, ne sono espatriati oltre 1,2 milioni, di cui il 37% è laureato. Il saldo migratorio è così in negativo di 670.000 persone: in sostanza, abbiamo perso l’equivalente della popolazione di Palermo.
Un Paese di anziani ha un elettorato che compie scelte per anziani. Così, la demografia determina l’agenda politica degli esecutivi, lasciando presagire i rischi di dissesto finanziario per una democrazia in cui lo Stato spende oltre la metà della ricchezza prodotta annualmente.
Non a caso, quasi in sordina, tra la maggioranza serpeggia la tentazione di bloccare l’età pensionabile a 67 anni, onde scongiurarne lo scatto automatico a 67 anni e 3 mesi nel 2027. Un’ipotesi confidata in settimana al Financial Times dal Sottosegretario al lavoro Durigon e che tenta anche il Ministro Giorgetti, con Giorgia Meloni che conferma la disponibilità a confrontarsi sulle proposte che dovessero arrivare dagli alleati. Una misura che varrebbe un bel bottino elettorale, ma che vanificherebbe gli sforzi di contenimento di debito e deficit che sono valsi al Paese il plauso di mercati, agenzie di rating e osservatori internazionali come l’OCSE. L’ufficio parlamentare di bilancio, infatti, ha stimato che, se l’età di pensionamento fosse tenuta costante, l’aumento della spesa previdenziale farebbe schizzare il rapporto debito/PIL al 139% entro il 2031, ovvero di circa il 7% in più rispetto alle attuali previsioni.
Le stime future dipingono un quadro tetro, ma il sistema è sull’orlo del precipizio già ora. Quella pensionistica è la prima voce di spesa del bilancio italiano e supera il 15% del Pil: la più alta in Europa. Per rapporto, la nostra spesa per l’istruzione non raggiunge il 3%. È un divario indicativo di un Paese che divenuto una gerontocrazia, in cui il passato divora gli investimenti sul futuro. Solo il 70% della spesa previdenziale viene infatti finanziato con i contributi versati, mentre il 30% di eccedenza viene coperto facendo ricorso alla fiscalità generale: trasferimenti, questi ultimi, che sono aumentati di oltre il 65% dal 2013, a fronte dei contributi che incidono (e incideranno) sempre meno sul totale.
Quando parte ingente delle entrate serve a coprire voci di spesa obbligate, ogni scelta politica è già vincolata. È una zavorra che annienta qualsiasi margine di riduzione della pressione fiscale, che determina aumenti automatici della spesa corrente finanziata a debito e condanna a interessi più salati. Un pantano dal quale è impossibile riemergere preservando lo status quo per un mero calcolo del consenso.