Contrordine, la globalizzazione dimezza la povertà

Contrordine, la globalizzazione dimezza la povertà

Pier Luigi Del Viscovo osserva come il capitalismo sia un sistema imperfetto ma ha benefici. Gli Stati più ricchi devono però fare ancora molto

Il capitalismo è un sistema economico imperfetto, che tanti ritengono incapace di un’equa distribuzione della ricchezza. Il malumore sta crescendo soprattutto in questo inizio secolo, in cui le economie europee sono stressate dalla concorrenza di altre aree del pianeta, più affamate e dunque più aggressive, e dal peso di un welfare non più sostenibile, se non altro per ragioni demografiche (molti pensionati e molto a lungo in rapporto agli occupati).

In effetti, motivi di aggiustamento ce ne sono, a cominciare dal gap salariale tra i vertici delle grandi multinazionali e il meno pagato dei suoi addetti, diventato abnorme negli ultimi vent’anni. Ma quando si tenta un giudizio è opportuno cominciare a guardare i fatti più importanti.

Il capitalismo ha sconfitto quasi del tutto la povertà. Nel 1820 il mondo ospitava un miliardo e 82 milioni di anime, di cui appena il 5,6%, 61 milioni, era sopra la soglia di povertà estrema. Da allora la situazione è andata sempre migliorando. Alle soglie della Grande guerra, quasi il 18% dei 1.750 milioni di abitanti era uscito dalla povertà estrema. Nel 1970 eravamo al 28%. Cos’era accaduto in quei 150 anni? Le macchine industriali, che costavano «un capitale», avevano portato la specializzazione del lavoro e l’aumento della produttività, ossia ogni lavoratore produceva più ricchezza che, per quanto distribuita in maniera discutibile, portava comunque a un innalzamento delle condizioni di vita, alias minore mortalità infantile e allungamento della vita media: il miliardo o poco più del 1820 era più che triplicato nel 1970 a 3,7 miliardi di abitanti. Oggi l’aspettativa di vita media nel mondo è di 71 anni, era appena 33 nel 1900.

In più, se fino al 1970 al crescere della popolazione mondiale aumentava anche il numero dei poveri in valore assoluto, da quell’anno il numero di poveri ha preso a diminuire, da 2,2 miliardi ai 706 milioni di oggi, meno del 10% della popolazione, pur se questa è quasi raddoppiata nel periodo, da 3,7 a 7,35 miliardi. In 45 anni quasi 1,5 miliardi di persone sono uscite dalla povertà. Com’è stato possibile? Con qualche approssimazione, la fine del colonialismo politico-militare seguito alla seconda guerra mondiale ha dato spazio al colonialismo economico delle grandi multinazionali, che hanno industrializzato le aree del mondo ancora arretrate, trasformandole in Paesi in via di sviluppo e poi nelle attuali economie emergenti. Col trasferimento delle produzioni e delle merci attraverso i continenti iniziava la globalizzazione.

Il solo dato della Cina è impressionante: nel 1980 l’88% viveva in estrema povertà, mentre nel 2010 era solo l’11%. Viva la globalizzazione, allora? Be’, non tutti sottoscriverebbero. Avere spostato le manifatture a oriente s’è sentito da queste parti, anche se nel frattempo molti posti di lavoro sono stati creati nei servizi. Però, adesso che la tecnologia consente di rispondere al telefono o di formulare una diagnosi su una Tac da migliaia di chilometri, anche il terziario è sotto attacco.

Di fronte a questo scenario, l’Occidente sembra dare due risposte. Una, che circola molto nella vecchia Europa, indica che non c’è soluzione, dunque dovremmo rassegnarci a diminuire il nostro standard di vita perché gli asiatici e poi gli africani prenderanno i nostri lavori. Nel frattempo, viene rivalutata l’economia di Stato, per distribuire in varie forme reddito (poco e stagnante) e debito (tanto e in crescita). Eppure, un’altra strada c’è. La stanno percorrendo i cugini del nuovo mondo.

Uno studio del Boston Consulting Group mostra come nel decennio 2004-2014 la competitività manifatturiera dei principali paesi sia cambiata profondamente. Fatto 100 l’indice di competitività manifatturiera degli Usa, nel decennio la Cina ha perso 9 punti, pur restando con 96 di indice ancora più competitiva degli Stati Uniti. La Germania, secondo grande esportatore mondiale, ha perso 4 punti portando l’indice a 121, ma peggio hanno fatto l’Italia (+10 a 123 di indice) e la Francia (+10 a 124 di indice). Fattori quali i tassi di cambio e il costo dell’energia (l’Italia è in cima con 22,2 cent/kwora su una media di 11,4) hanno giocato, ma su ogni altra cosa hanno pesato il costo e la produttività del lavoro.

In conclusione, il capitalismo industriale ha prima (quasi) eliminato la povertà e poi ha prodotto la globalizzazione. I cittadini dei paesi ricchi hanno una chance: riprendere la marcia verso attività e occupazioni sempre nuove e migliorare di continuo l’efficienza del sistema socio-economico, coniugando creatività e tecnologia. Oppure possono godersi il loro benessere, ancora per qualche tempo, alla maniera della cicala, appesantendo via via le strutture che governano l’economia, puntando dritto verso il baratro della miseria. Che sarà pure lontana, ma prima o poi ci arriviamo.

Pier Luigi Del Viscovo, Il Giornale 12 ottobre 2016

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