C’è il rischio che l’Unione si dissolva

C’è il rischio che l’Unione si dissolva

Per condividere l’affermazione di Angela Merkel nel suo discorso al congresso dei popolari europei secondo cui «i nazionalismi portano la guerra» non è necessario essere profondi conoscitori della storia umana. La Merkel ha ripetuto quanto il suo mentore politico, lo scomparso Helmut Kohl, diceva spesso, ossia che l’integrazione europea è la migliore garanzia contro la possibilità che la guerra torni a insanguinare l’Europa.

Nel 1990 uno studioso americano, John Mearsheimer, riflettendo su quelle che egli riteneva le probabili conseguenze della caduta del muro di Berlino e dell’unificazione tedesca, scrisse un saggio dal titolo suggestivo: Back to the future, ritorno al futuro. Secondo Mearsheimer l’Europa sarebbe presto tornata a dividersi come aveva sempre fatto, gli Stati europei avrebbero ricominciato a praticare, gli uni nei confronti degli altri, il vecchio gioco della politica di potenza.

Quel saggio suscitò una valanga di critiche. Era in controtendenza rispetto al clima euforico, da dopoguerra, che prevaleva in Occidente in quel momento. Mearsheimer venne considerato un guastafeste. Fu un coro unanime: altro che ritorno della politica di potenza — si disse—, mai come ora la collaborazione fra gli europei è stata così stretta, il passato non può ritornare. Il problema con le scommesse/profezie sul futuro è che non bastano quasi mai pochi anni per decidere della loro validità o fai siti.

I processi storici, per dispiegarsi, possono richiedere decenni. Non è cosi sicuro che se il saggio di Mearslieimer anziché nel 1990 fosse stato pubblicato uno o due anni fa avrebbe ricevuto la stessa accoglienza, al limite dell’irrisione, che ricevette ventotto anni or sono. L’integrazione europea ha funzionato producendo benefici per tutti i Paesi coinvolti fin quando era unanimemente pensata come un gioco a somma variabile, nel quale, cioè, tutti — anche se, eventualmente, in modo diseguale — potevano guadagnarci. Il ritorno dei nazionalismi (impropriamente detti sovranismi) ha trasformato— non per tutti gli europei ma per molti sì — i rapporti entro l’Unione in un gioco a somma zero: l’impressione di coloro che sono suggestionati dalla propaganda nazionalista/sovranista è che, in Europa, il guadagno dell’uno comporti automaticamente la perdita dell’altro. Ma nel momento in cui l’integrazione europea diventa (viene percepita come) un gioco a somma zero il motore dell’integrazione si imballa e l’Unione corre il rischio di implodere.

Se l’Unione implodesse, che cosa pensate che accadrebbe dopo qualche tempo in Europa? Da un lato, il Vecchio Continente diventerebbe terra di conquista: sfruttando le sue divisioni le grandi potenze cercherebbero, l’una in competizione con l’altra, di accrescere la propria influenza sui vari Paesi europei. Dall’altro lato, le tensioni e i contenziosi fra gli europei non potrebbero pili usufruire di quella «camera di compensazione» che è stata, per decenni, la Comunità/Unione. Naturalmente, anche se sostenerlo può essere utile (ma lo è davvero?) alla polemica politica, è troppo comodo limitarsi a puntare il dito contro i rinascenti nazionalismi. Perché essi non ci sono arrivati addosso da chissà dove, sono la conseguenza dei limiti della costruzione europea. Questi limiti sono per lo più antichi, anche se solo oggi la storia ci sta presentando il conto.

Ci sono, nella storia dell’integrazione, limiti culturali e i limiti politici. Un limite culturale è stata l’idea, a lungo propagandata dagli euro-entusiasti, secondo cui sarebbe stato possibile prima o poi sostituire le democrazie nazionali con una «democrazia sovranazionale» europea. Ma una tale democrazia non potrà mai nascere. Nessuno potrà mai fidarsi di, e votare per, un qualsiasi candidato a una qualsiasi carica europea se continuerà ad avere bisogno dell’interprete per capire che cosa quel candidato dica e prometta. Le cosiddette «élites cosmopolite», sproloquiando di fantomatiche democrazie sovranazionali, hanno involontariamente favorito la reazione nazionalista in atto. L’altro limite culturale — ma con pesanti ricadute istituzionali e politiche — è stato a lungo quello di pensare all’integrazione europea (soprattutto sotto l’influsso della cultura politica francese) come a un processo di costruzione di uno «Stato» (sovranazionale), confondendo così il federalismo con la statualità.

I limiti politici sono stati molti. Forse più grave è consistito nella «rimozione» del ruolo degli Stati Uniti. Per non urtare i sentimenti anti-americani di una parte degli europei, si è cercato a lungo di minimizzare l’importanza dei legami interatlantici. Ma furono gli Stati Uniti il principale sponsor (in funzione antisovietica) dell’integrazione europea. Furono gli Stati Uniti che garantendo la sicurezza militare agli europei in cambio del riconoscimento della loro leadership, permisero alla Comunità/Unione di investire solo in sviluppo e welfare anziché in sicurezza. Per inciso, chi nasce gatto non può diventare cane: l’impossibilità di dare vita a una «difesa europea» si spiega in questo modo.

Oggi la crisi in atto dei legami interatlantici rende ancora più grave la crisi europea. Minimizzare l’importanza di quei legami non ha mai aiutato gli europei a pensare in modo realistico e convincente la loro impresa comune.

Ancora, fra i limiti politici, si può citare una assai poco accorta gestione dell’integrazione monetaria che ha finito per esasperare le divisioni fra europei. O l’altrettanto poco accorta gestione della questione dell’immigrazione: da un lato, Schengen (la libera circolazione delle persone) ma, dall’altro, l’assenza di un controllo comune delle frontiere europee. O, infine, la mancata — da parte delle élites — educazione/preparazione delle opinioni pubbliche al fatto che il successo della cooperazione europea non implica la soppressione pura e semplice degli interessi nazionali.

I limiti sopra elencati hanno alla fine favorito l’emergere di movimenti il cui successo potrebbe comportare la dissoluzione dell’Unione. Chi condivide l’idea della Merkel secondo cui il nostro peggior passato rischia di ritornare non dovrebbe limitarsi a condannare i nazionalismi. Dovrebbe occuparsi dei limiti e dei difetti della costruzione europea.

Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 15 novembre 2018

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