Bavaglio? La vita non è un reality show

Bavaglio? La vita non è un reality show

ROMA – «Delle 100 mila persone ingiustamente arrestate dal 1992 e soggette a gogna mediatica ne sono state risarcite dallo Stato 30 mila. Dove sta il diritto?». Lo haricordato in audizione, davanti alla Commissione Politiche dell’Unione Europea del Senato, il presidente della Fondazione Luigi Einaudi di Roma, Giuseppe Benedetto, noto avvocato penalista patrocinante in Cassazione e giornalista.

È intervenuto nell’ambito dell’esame del disegno di legge di delega al Governo per l’integrazione delle norme nazionali di recepimento della Direttiva Europea 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
Nodo centrale dell’audizione di Benedetto è stato il tanto discusso art. 4 del provvedimento già approvato a larga maggioranza dalla Camera, il 19 dicembre scorso, su iniziativa del deputato dell’opposizione Enrico Costa (“Azione”) ed incentrato sul divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.
L’intervento di Giuseppe Benedetto è stato nei fatti una vera e propria “lectio magistralis” sui temi centrali del diritto moderno. Senza perifrasi, senza nessun tono retorico, con la serenità che contraddistingue da sempre la sua storia e il suo ruolo di uomo liberale il presidente della Fondazione Luigi Einaudi ha picchiato duro su talune distorsioni della pratica giudiziaria di questi anni.

«Non mi soffermerò –  ha esordito – sull’aspetto relativo al diritto di presenziare al processo, in quanto mi pare uno degli aspetti più condivisi del provvedimento. Anche se a fatica e con una giurisprudenza altalenante in ltalia, il diritto appare garantito e in linea con quanto prevede la direttiva europea. Per quanto riguarda, invece, il primo e più corposo aspetto della presunzione d’innocenza, che tante polemiche ha suscitato in ltalia, cioé la cosiddetta “Legge Bavaglio” – ma a me non piace chiamarla così – voglio dire che l’impostazione data da chi si oppone al provvedimento già votato dalla Camera e oggi alla vostra attenzione – e ciò mi ha stupito – è esattamente in senso contrario alle indicazioni della Commissione Europea».

L’uomo va giù duro, diretto come sempre, consapevole del ruolo che riveste e per il quale è stato invitato in Commissione.
«Intanto devo dire sinceramente che nella patria di Cesare Beccaria e di Franco Cordero – e questo lo dovremmo sottolineare anche alla Commissione Europea – ci si dimentica spesso di ricordare che la presunzione d’innocenza è scritta nella Costituzione. Su questo, almeno dal punto di vista costituzionale, l’Italia non è indietro rispetto ad altri Paesi. Ed allora, si permetta la provocazione, la Costituzione si difende sempre, non a giorni alterni».

Chi lo conosce bene sa che lo studioso non concede attenuanti neanche a sé stesso, e che il suo rigore morale va al sopra di ogni cosa: «Chi dice “ce lo chiede l’Europa” e, nel contempo si oppone ai provvedimenti a tutela della presunzione d’innocenza, ci dovrebbe dire cosa chiede l’Europa, con quale atto ce lo chiede e perché la legislazione italiana non si sarebbe ancora adeguata. Perché di per sé dire “ce lo chiede l’Europa” vuol dire molto poco o nulla».

«La delega al Governo – ha ricordato Benedetto – introdotta dall’altro ramo del Parlamento e qui in discussione tende, invece, a tutelare in concreto proprio la presunzione di innocenza. In particolare, lì dove prevede il divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari, e cioè fino a quando il cittadino indagato non sa ancora di esserlo. Altrimenti chi è del tutto ignaro e a non conoscenza di nulla dovrebbe apprenderlo, come negli ultimi 30 anni, dai giornali.

Se, invece, venisse approvato il provvedimento anticipato dal ministro della Giustizia Nordio all’esame del Parlamento che si propone di introdurre il cosiddetto interrogatorio di garanzia prima dell’ordinanza di custodia cautelare, il cittadino indagato, potendo essere interrogato prima dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare, ne verrebbe a conoscenza e potrebbe comunque dire da subito la sua. E quindi la prospettiva della presunzione d’innocenza della pubblicazione sui giornali sarebbe modificata».

Giuseppe Benedetto legge i suoi appunti – ma in realtà va a braccio – e al termine dell’audizione consegna alla Commissione una dettagliata nota scritta a nome della prestigiosa Fondazione Einaudi. Sono temi che come uomo di legge conosce meglio di chiunque altro, e sono principi – lui li chiama così – su cui nessuno di noi dovrebbe mai fare marcia indietro.

«Vi è subito da chiarire – sottolinea Benedetto – che tale pubblicazione integrale dell’ordinanza di custodia cautelare oggi è consentita solo grazie ad una modifica dell’art. 114 c.p.p. intervenuta nel 2017. Prima di quella modifica non era consentita. Cercherò di chiarire perché è opportuno che da ora in avanti non sia più consentita la pubblicazione integrale o per estratto.
Intanto, un’osservazione di ordine generale. Mi sono chiesto: per quale motivo alcuni magistrati, quasi esclusivamente pubblici ministeri, si sono scatenati contro questa norma approvata dalla Camera? Ciò non si comprende perché io posso anche capire – ma non le condivido – le prese di posizione da parte della Fnsi – Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Questo lo capisco bene perché è una materia su cui i giornalisti si confrontano ogni giorno. Ma non capisco, invece, quale sia l’interesse del pubblico ministero».

A costo di risultare impopolare il presidente della Fondazione Einaudi è più determinato che mai. Dice testualmente: «Ricordo il tempo in cui proprio i magistrati dell’accusa, giustamente, erano concentrati a tenere segreti gli atti istruttori. Qui, invece, stanno facendo delle battaglie e degli appelli pubblici perché questa norma gravemente lesiva – non ho capito di che cosa – non sia approvata. Quale è il motivo per cui i magistrati si stanno opponendo a questa norma? Io non ne trovo nessuno di logico. Dovrebbe, infatti, essere interesse di chi conduce le indagini non diffondere le notizie almeno nelle fasi iniziali più delicate».
Per il presidente Benedetto «in realtà oggi queste polemiche nascono da un’altra novità legislativa, il decreto legislativo Cartabia n. 188 del 2021 che non consente più ai Pm, se non in casi eccezionali, le tanto amate conferenze stampa degli stessi pm che sono oggi sostituite dalle più sobrie comunicazioni del Procuratore Capo».

E qui la nota dolens della giornata e della sua audizione in Commissione: «La paradossale conseguenza di questa limitazione – precisa il presidente della Fondazione Einaudi – è stata che il Pm scarica in centinaia di pagine di ordinanza custodiale tutta una serie di elementi ad colorandum (ad esempio, “il noto criminale”, ecc.) relativi alla presunta colpevolezza dell’indagato. Ricordiamo che l’indagato ancora per lunghi anni resta un innocente per la Costituzione italiana (fino a sentenza passata in giudicato). E, dunque, si comincia a comprendere quale è questa necessità che alcuni Pm di bloccare questa legge».

Il tempo a sua disposizione sta per scadere, ma il presidente della Fondazione Einaudi sembra non preoccuparsene più di tanto: «Non sto qui a parlare del Gip, figura sempre più evanescente, che quasi sempre riporta pedissequamente quanto proposto dal Pm. Il tema del rafforzamento di questo filtro che c’é tra il momento delle indagini e il momento del dibattimento sarebbe un tema da porre. Appare superfluo aggiungere che, sino alla fase delle indagini, in campo c’è sostanzialmente una sola parte: l’accusa. Invero, occorre ricordare che l’ordinanza applicativa di una misura cautelare è un atto “anomalo”, che si distingue da tutti gli altri: è emesso “inaudita altera parte”. In altri termini, viene disposta la restrizione della libertà personale di un individuo, che in nessun modo può partecipare alla decisione. E dunque, la voce della difesa più che flebile è inesistente. Tuttavia, ad avviso di qualcuno l’ordinanza dovrebbe essere pubblicata sui giornali. Insomma, il difensore non ha ancora letto i motivi d’accusa, l’indagato nemmeno è stato sentito dal magistrato nell’interrogatorio di garanzia (diritto fondamentale garantito dalla Cedu), ma il pubblico tutto deve sapere, nemmeno si trattasse di un reality show».

Sembrava dover essere la sua una audizione tranquilla, priva di polemiche, ma in realtà il giurista siciliano mette alle corde il sistema giustizia-Paese come forse nessun altro prima di lui aveva saputo fare: «Allora mi chiedo: tale norma è a tutela o no delle oltre 100 mila persone ingiustamente arrestate dal 1992 ad oggi e tutte sottoposte alla gogna mediatica che ben conosciamo, delle quali 30 mila hanno poi ottenuto un risarcimento dallo Stato, mentre i restanti 70 mila non hanno ottenuto l’indennizzo solo per non aver fatto domanda? E questa norma come lederebbe il diritto all’informazione? Insomma, chi esce dal processo innocente ha diritto o no ad avere la sua reputazione integra? E lo Stato deve tutelare questo diritto?».

Domande sacrosante, a cui il sistema giudiziario italiano non ha mai dato una risposta serena ed esauriente.

«Ricordo peraltro en passant – osserva ancora Benedetto – che non c’è un divieto assoluto di pubblicazione, ma il giornalista può ben trarne un sunto per darne comunicazione e doverosamente informare su fatti di pubblico interesse. In conclusione, la norma in discussione in questa Commissione è un altro tassello della civiltà giuridica che consente di evitare quanto è successo troppe volte in questi anni. Cioè, che il processo penale duri un’ora – è una battuta che ho fatto durante la presentazione del mio ultimo libro alla presenza del ministro della Giustizia Nordio – cioè l’ora che trascorre da quando inizia a quando finisce la conferenza stampa del Pubblico Ministero. Lì tutti i giornalisti stanno con i microfoni in mano a inseguire il Pm che annuncia di aver fatto arrestare dei cittadini che, magari, nel giro di pochi giorni vengono scarcerati. E poi quale giornalista segue puntualmente quel processo se non per casi eclatanti? Praticamente nessuno: questo è il meccanismo che va superato».

Come si fa a non dargli ragione?

«Lì – conclude il presidente della Fondazione Einaudi – viene distrutta una reputazione e il danno mai più sarà riparato. Se per molti magistrati gli indagati sono solo numeri, se per alcuni giornalisti sono solo notizie, per un liberale sono persone in carne e ossa, innocenti o meno. Il marketing giudiziario è ignobile. Per questo credo sia estremamente opportuno il recepimento di questa Direttiva Ue».

Il presidente Benedetto ha, poi, puntualizzato di nutrire dei seri dubbi che questa norma possa concretamente funzionare: «C’è il limite della sanzione perché non possiamo credere che una sanzione di 100 euro possa essere dissuasiva rispetto alla violazione di questa norma qualora sarà approvata. Credo che su questo bisognerà riflettere perché non vi è norma di questa natura senza sanzione».

Rispondendo alle domande che gli vengono dall’on. Debora Serracchiani (Pd) e Alessandro Colucci (Noi con l’Italia) il presidente della Einaudi cita il suo libro “Non diamoci del tu” – la prefazione è del ministro Carlo Nordio – per spiegare meglio le sue tesi e per rispondere indirettamente alle critiche che in questi giorni gli sono venute dal giudice Edmondo Bruti Liberati.
«Che il giudice e l’accusatore – ripete il giurista – siano colleghi è una singolarità tutta italiana. Un’anomalia politica e sociale che si perpetua da decenni. Questo libro evidenzia tale stortura e auspica un cambiamento radicale del sistema giustizia, illustrando l’urgente necessità della separazione delle carriere affinché si possa raggiungere realmente l’autonomia della giurisdizione. Un rigoroso lavoro di approfondimento scientifico, una minuziosa cura della ricostruzione storica, uno scrigno di passione civile che emerge da ogni pagina, questo e tanto altro è “Non diamoci del tu”».

Per arrivare poi al nodo conclusivo della giornata, l’etica pubblica: «Volete sapere perché il magistrato non può occuparsi di etica pubblica? Perché l’etica pubblica è demandata ad altro e ad altri. Il magistrato – ricorda con rigore Giuseppe Benedetto – non deve occuparsi di qualsivoglia principio etico. Deve solo amministrare bene possibilmente e auspicabilmente la giustizia. Quello per cui è pagato con le tasse degli italiani, che pagano il suo stupendio. Per quanto riguarda noi avvocati, noi rispondiamo al nostro cliente, voi parlamentari rispondete ai vostri elettori, e i magistrati hanno il compito di amministrare la giustizia e non altro».

In sala c’è il silenzio più assoluto. «Fuggiamo via – tuona il presidente Benedetto – dai magistrati che ritengono di essere interpreti autentici e sacerdoti dell’etica pubblica».
Se fossimo stati in teatro – osservano molti dei senatori presenti – avremmo per forza di cose assistito ad una standing ovation a favore del presidente Giuseppe Benedetto, ma in Senato il rigore e lo stile parlamentare non lo consentono. Ma mai come in questo caso le parole sono pietre. Mai così pesanti contro una giustizia che spesso fa acqua da tutte le parti.
Chiosa finale. Il Presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto, nella sua nota scritta ha voluto aggiungere una sua risposta per fare chiarezza e sgombrare il campo da un’obiezione circolata di recente da parte di chi si oppone all’approvazione dell’art. 4, secondo cui «il provvedimento deve essere pubblico quale garanzia per l’indagato, cosicché tutti i cittadini possano controllare l’operato della magistratura».

Questa, però, è stata la sua replica secca e puntuale: «Il principio di pubblicità degli atti in materia penale nasce molti secoli fa nel Regno Unito. Tuttavia, esso fu sancito in ordine alle udienze del dibattimento, dove, non a caso, vigeva e vige tutt’ora il principio del contraddittorio. Se le parti in posizione di parità partecipano all’attività processuale è doveroso che il pubblico sappia. Però, come già ricordato, il provvedimento applicativo di una misura cautelare è disposto quando l’indagato nemmeno sa di essere tale. Ed allora, quale sarebbe la garanzia, quella di essere dipinto come colpevole dal Pubblico Ministero “urbi et orbi”?».

giornalistitalia.it

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