Arrotare

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Il governo sta valutando la possibilità e la necessità di utilizzare nel caso di Pirelli il golden power, ovvero il potere di interdire una operazione di mercato ove ritenga in pericolo gli interessi nazionali. È una scelta difficile, perché altera pesantemente le regole. Si tratta di capire se è anche una scelta necessaria, oltre che opportuna.

Pirelli è uno dei marchi storici dell’industria italiana, da anni affidata alla gestione di Marco Tronchetti Provera. È stata anche protagonista di una non fortunata avventura di acquisto e gestione di Telecom Italia. Quotata in Borsa fin dal 1922, nel 2015 ne venne annunciata l’uscita (delisting) e la vendita della quota di maggioranza ai cinesi di ChemChina, presenti pure soci russi. Nel 2016 vengono ritirate anche le azioni di risparmio. Nel 2017, con il suo nuovo assetto, la società torna alla Borsa di Milano. I soci hanno degli accordi fra di loro, compreso il patto che Tronchetti Provera – pur detenendo una quota di minoranza – resti vice presidente esecutivo, in pratica il dominus della società.

Non facciamola complicata: si tratta di una società privata, la precedente proprietà ha scelto di vendere, ha trovato soci cinesi disposti a metterci molti soldi. Sono affari loro. Ora salta fuori, però, che nel succedersi delle vicende societarie e degli assetti di vertice, il socio cinese (nel frattempo divenuto Sinochem), se non subito fra tre anni potrebbe trovarsi a contare di più. Da qui la preoccupazione governativa sulla sorte di un marchio italiano. Soltanto che una storia simile si presta poco ai nazionalismi economici e la possibile interdizione potrebbe arrecare, quella sì, un grave danno all’Italia, arrotandone l’affidabilità.

Perché i casi sono due. Nel primo potrebbe darsi che il socio italiano superstite, la Camfin di Marco Tronchetti Provera, lamenti una violazione degli accordi da parte dei cinesi. In questo caso non ha che da rivolgersi a un tribunale, spiegando di avere ceduto il controllo azionario pattuendo la permanenza in mani italiani del controllo industriale, soltanto che i detentori del pacchetto più grosso ora vogliono fare di testa loro. Il giudice si farà portare il testo degli accordi, leggerà le memorie delle parti e deciderà chi ha torto e chi ragione. Nel secondo caso gli investitori del 2015 avevano in animo fin dall’inizio, com’è legittimo, di assumere un ruolo nel tempo sempre più importante. Il che è anche normale e risponde al principio che fra studentelli si riassumeva motteggiando «Articolo quinto, chi ci ha messo i soldi ha vinto».

Il primo caso è escluso che sia di competenza governativa e che possa essere affrontato usando il golden power, perché sarebbe come dire che i tribunali italiani sono inaffidabili o inutili. Nel secondo caso l’uso di quel potere altererebbe le regole di mercato e aprirebbe un contenzioso in cui il socio che si vede portare via quel che ha già pagato è improbabile prenda la cosa in modo spiritoso. Né serve a molto accampare la ‘scoperta’ che il socio cinese si uniforma alle direttive del suo governo, intanto perché sarebbe superiore all’ammissibile ingenuità pensare che avvenga il contrario e poi perché il nostro Stato è legato a quello cinese dal malauguratamente firmato accordo “Via della seta”, cui aderimmo unici (fra i Paesi del G7) quando era in carica il primo governo Conte e il vice presidente di allora è il medesimo vice presidente di oggi: Matteo Salvini. In pratica il governo italiano di ora, ove siedono taluni che sedevano nel governo di allora, userebbe un potere societario per contraddire quel che stabilì il governo italiano. E non stiamo parlando di epoche lontane, ma della scorsa legislatura.

Se quella cessione di quote, in capo a un marchio così importante nella nostra storia, era da considerarsi nocumento degli interessi generali si doveva dirlo nel 2015. Farlo adesso consegna un messaggio inquietante non agli investitori cinesi, ma a qualsiasi investitore internazionale: occhio, che in Italia cambia il governo e cambiano anche le regole del gioco. E questo è un punto troppo delicato, per potersene prendere gioco.

 

La Ragione

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