Giustizia non è sinonimo di magistratura: sovrapporre i due concetti è un errore da cui discendono pericolose storture. Antefatto. Nei giorni scorsi, durante una puntata di Omnibus su La7, mi sono trovato a dibattere con Nicola Gratteri. Il conduttore, Gerardo Greco, mi ha chiesto cosa pensassi delle polemiche sulla sovraesposizione mediatica dell’attuale procuratore della Repubblica di Napoli. Ho risposto che la scelta di Gratteri di condurre una trasmissione televisiva è legittima, che la trasmissione in questione (Lezioni di mafie, su La7) ha un’evidente finalità civica, ma che in generale depreco il fatto che i magistrati, e i pubblici ministeri in particolare, assurgano a notorietà mediatica parlando, come usa fare anche Gratteri, delle inchieste che seguono: una sovraesposizione destinata, fatalmente, a condizionare la loro funzione pubblica, oltreché la pubblica opinione e di conseguenza le deliberazioni del giudice teoricamente terzo.
La replica di Gratteri mi è parsa, per così dire, interessante. Interessante perché rivelatrice di un’impostazione precisa. “Vedo – ha detto Gratteri – preoccupazioni per il fatto che ora che andiamo nelle televisioni abbiamo audience. Dopo il caso Palamara eravamo al 36% di gradimento, adesso siamo al 52, quindi stiamo salendo. Vedo una politica un po’ nervosa che si preoccupa del fatto che è aumentata la nostra credibilità: lei da cittadino dovrebbe essere felice se l’opinione pubblica torna a credere nella magistratura”.
Da cittadino, preferirei che i cittadini credessero nella Giustizia, ma, evidentemente, Gratteri ritiene che la fiducia nei magistrati equivalga alla fiducia nella Giustizia. Errore grave. Grave e pericoloso.
In uno Stato di diritto, la fiducia dei cittadini deve essere riposta nella Giustizia come istituzione, non nei magistrati come individui. Può sembrare una distinzione sottile, ma è decisiva: perderla significa poggiare la base del sistema giudiziario sulla sabbia dell’arbitrio personale, anziché sul cemento delle regole condivise.
La Giustizia, con la maiuscola, è un ordine normativo: un insieme di principi, leggi, garanzie, procedurale e organi preposti alla loro applicazione. I magistrati, invece, sono uomini e donne chiamati a far rispettare quelle norme. E, come tutti gli esseri umani, possono sbagliare. Possono essere animati da buone intenzioni o da pregiudizi, da rigore o da protagonismo. Possono – e devono – essere criticati, valutati, messi in discussione. Il rispetto per il loro ruolo non può mai diventare fideismo. La funzione giudiziaria merita tutela, ma proprio per questo deve essere esercitata nel perimetro rigoroso della Costituzione, del contraddittorio e del rispetto dei diritti dell’imputato.
La Giustizia, ci ricordava il grande giurista, nonché padre costituente, Piero Calamandrei, “è amministrata in nome del popolo. Non in nome dei giudici”. Ma, da Mani Pulite in poi, questa distinzione si è persa. Molti magistrati ritengono di essere la Giustizia e di essere i depositari ultimi dell’etica pubblica, la quale, semmai, spetterebbe al legislatore. “I magistrati – diceva Giovanni Falcone – devono avere l’umiltà di capire che non sono i padroni della giustizia, ma i servitori della legge”. Umiltà che, con tutta evidenza, non appartiene a Nicola Gratteri né a buona parte dei pubblici accusatori, pericolosamente assimilabili, ormai, al Grande inquisitore di Dostoevskij: un potere assoluto, quasi religioso; un potere arbitrario da cui dipende la libertà personale di ogni singolo cittadino e l’equilibrio tra i poteri dello Stato.