Renato Vallanzasca è detenuto e sta male –Di fronte a una petizione che ha racimolato un migliaio di firme per chiedere a
Sergio Mattarella la grazia per Renato Vallanzasca -promossa da uno degli ex membri della sua banda, Alfredo “Tino” Stefanini – è facile lasciarsi investire dal giudizio morale, dall’indignazione oppure, per converso, da una malintesa compassione. C’è chi grida allo scandalo e chi invoca clemenza.
Ma il punto non è chi sia Vallanzasca oggi. Il punto è se uno Stato di diritto debba rimanere tale anche quando è scomodo e anche quando il nome sulla scrivania del Presidente della Repubblica suscita un riflesso viscerale.
Vallanzasca è stato un criminale a tutto tondo. Negli anni Settanta e Ottanta il “bel René”- così lo chiamavano i giornali per il suo aspetto curato, la sua presunta eleganza e un certo fascino che esercitava anche dietro le sbarre – ha seminato sangue e paura per le strade di Milano e non solo. La sua fedina penale parla chiaro: quattro omicidi accertati (tra cui quelli di due agenti di Polizia), decine di rapine a mano armata, sequestri di persona, traffico d’armi, detenzione illecita, evasione. È stato il capo di una delle più spietate bande criminali dell’epoca, tanto da divenire un simbolo del crimine organizzato di quegli anni.
Condannato a quattro ergastoli e a oltre 260 anni di carcere, ha scontato più di cinquant’anni in prigione. Una detenzione lunga e ininterrotta, senza benefici, se non quello, previsto dalla legge, del trasferimento in una struttura sanitaria quando le sue condizioni di salute sono peggiorate.
Chi oggi vuole la sua grazia – dice Stefanini – lo fa partendo da un presupposto medico e umano: è malato, affetto da demenza senile, non è più in grado di intendere né di volere. Non è più un pericolo poiché non è più autonomo. È un corpo che si spegne lentamente e lo fa in una struttura protetta, ma formalmente resta un detenuto, sottoposto al sistema penitenziario dello Stato. Allora la domanda che pongo è: lo Stato a cosa serve? E le leggi a cosa servono? La giustizia esiste per garantire i diritti di tutti – anche quelli di coloro che hanno commesso i peggiori crimini – ma questo non significa cancellare il senso della pena. Che una persona stia bene o stia male, la condanna resta e deve trovare una forma coerente di applicazione. Se le condizioni di salute non permettono più la detenzione ordinaria, si può e si deve intervenire per evitare sofferenze inutili, ma questo non giustifica il venir meno dal vincolo penale.
E c’è una domanda che pesa più di ogni altra: dove sono finiti oggi quelli del giustizialismo facile, delle manette come baluardo di giustizia? Quelli che continuano a gridare «Buttiamo via le chiavi»?
Quando la realtà si sporca, quando il carnefice non fa più paura e diventa solo un vecchio smemorato, l’isteria punitiva si ammutolisce. La durezza invocata a gran voce svanisce quando il nemico non fa più comodo.
Chi ha ricevuto una condanna definitiva non può tornare a essere semplicemente un cittadino libero.
Può ricevere assistenza, ma non riabilitazione simbolica. È giusto trovare una struttura adatta, garantire cure, rispetto e dignità. Ma pur sempre in un contesto detentivo.
Perché il diritto non è una forma di compassione e la pena non è un’opinione che cambia con l’età o con la memoria.
Chiedere allo Stato di restare giusto anche con chi non lo è stato mai non è un gesto di debolezza, ma il più grande atto di civiltà. Non perché Vallanzasca sia diventato buono, ma perché noi dobbiamo restare migliori di lui.