Caso Unicredit e Golden Power: l’interesse è nazionale o politico?

Caso Unicredit e Golden Power: l’interesse è nazionale o politico?

Si è conclusa in un nulla di fatto l’epopea dell’offerta di Unicredit su Banco Bpm. Una resa attribuibile, per ammissione stessa dell’Ad Andrea Orcel, alle incertezze sull’applicazione del Golden Power da parte del Governo Meloni per bloccare l’acquisizione. “Un’occasione persa per il Paese”, secondo il banchiere, sfumata nonostante la sentenza del Tar del Lazio e l’intervento dell’Unione Europea volti ad arginare il decreto di aprile, con cui l’esecutivo ha manifestato la propria ostilità alle mire di Unicredit sull’ex Popolare di Milano.

L’incertezza, l’ostruzionismo, il rischio di “impantanarsi”, per ricorrere all’espressione usata da Orcel, sono bastati a indurre il secondo gruppo bancario del Paese a ritirare l’offerta pubblica di scambio dopo nove mesi estenuanti, in primo luogo per gli azionisti. Condizioni, quelle poste in aprile da Palazzo Chigi, così stringenti da essere ritenute dalla Commissione Europea pregiudicanti e in aperta violazione delle norme comunitarie, limitando la libera circolazione dei capitali nell’Unione, al punto di intimare il Governo a “revocare senza indugio” il decreto della discordia. Bruxelles ha dunque rinvenuto, nell’opposizione del Governo all’operazione, la “mancanza di una sufficiente motivazione sostanziale”, smentendo l’argomentazione secondo cui “la misura persegua effettivamente la tutela della pubblica sicurezza”. D’altronde, in che modo il veto sull’acquisizione di una banca italiana da parte di un’altra banca italiana dovrebbe salvaguardare l’interesse nazionale?

L’accusa mossa all’esecutivo è quella di aver agito con discrezionalità e seguendo logiche politiche, tradendo la natura stessa del Golden Power e abusando dello strumento per perpetrare un’ingerenza arbitraria nel mercato. È un problema politico, ma dai profondi risvolti economici. Il Golden Power, infatti, non rappresenta un’unicità dell’ordinamento italiano, ma un dispositivo previsto, in varie incarnazioni, nella legislazione dei principali Paesi europei: uno strumento realmente indispensabile, se formulato e invocato con giudizio, per tutelare dei veri asset strategici per la sicurezza nazionale. Durante la sua esperienza di governo, Mario Draghi fece ampio ricorso allo strumento: un uso circostanziato a determinati settori, che consentì al Paese di stroncare anche le mire di Stato cinesi su target italiani altamente strategici nella difesa, nelle telecomunicazioni e nella produzione di semiconduttori. Il diktat sull’offerta di Unicredit su Bpm, così come quello sulla crisi degli stabilimenti Beko di Fabriano e la probabile applicazione dello strumento sulla triste vicenda di Magneti Marelli suggeriscono, al contrario, che l’attuale Governo opti per un’interpretazione della disciplina dalle maglie ben più larghe.

Lo scorso novembre, il presidente di sezione del Consiglio di Stato Roberto Garofoli, già sottosegretario nel Governo Draghi, ammoniva che i poteri speciali “non hanno nulla e non dovrebbero avere nulla a che fare con la politica industriale”. L’esecutivo, complice una normativa che lo stesso Garofoli definisce “lasca” rispetto ad altre controparti europee, può fare leva su un equivoco di fondo: le operazioni che dovrebbero rilevare per l’esercizio dei poteri speciali sono solo quelle da considerarsi strategiche per la sicurezza nazionale (come suggerisce la Commissione Europea) o anche quelle che possono ritenersi strategiche in senso lato per l’industria italiana? Nel caso si propenda per la seconda interpretazione, come fa il Governo Meloni, il Golden Power diviene strumento di politica industriale, con ripercussioni per il tessuto economico e imprenditoriale tutt’altro che trascurabili.

Un Golden Power dal perimetro ben delineato funge da scudo imprescindibile a tutela dell’interesse nazionale, ma la sua deriva più interventista diviene ostacolo alla libertà d’impresa. Così, la questione trascende i casi specifici di applicazione e diviene sistemica. Laddove il mercato non è realmente libero da ingerenze indebite della politica, l’incertezza corrode rapidamente la fiducia nel sistema Paese. Non è certo un terreno fertile per investire e fare impresa quello in cui la politica, con discrezionalità, può calare il jolly dei poteri speciali per ostacolare le trattative che meno le aggradano. L’arbitrio viene comprensibilmente interpretato dai mercati come una torsione dello Stato di diritto e il dirigismo rischia di spalancare le porte al capitalismo di relazione. Da Bruxelles, la Commissione fa sapere che il dossier resta sul tavolo fin quando il decreto è in vigore. Una vicenda che potrebbe costare ai contribuenti italiani una procedura di infrazione con sanzioni pecuniarie. Per Unicredit, sarebbe la più classica delle vittorie di Pirro.

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