Caso Kaufmann e sussidi al cinema: l’assistenzialismo è nemico della cultura

Caso Kaufmann e sussidi al cinema: l’assistenzialismo è nemico della cultura

Quanti Rexal Ford avrà prodotto la pioggia di sussidi indiscriminati al cinema italiano? Avremmo mai scoperto la reale identità del sedicente regista e produttore, al secolo Francis Kaufmann, e le sue probabili truffe ai danni dell’erario, se non fosse stato arrestato come presunto killer di Villa Pamphili? Sono gli stessi quesiti che devono essersi posti i vertici del Ministero della Cultura, intenti a revocare 66 milioni di euro di crediti d’imposta erogati a varie case cinematografiche che non ne avevano titolo e a bloccare domande per altri 22 milioni. Cifre esorbitanti, indicative dell’enorme portata distorsiva della mano pubblica sull’industria cinematografica italiana, settore ormai sussidiato per il 50% del suo valore e che costa al contribuente oltre 700 milioni l’anno.

Sono stati quegli 863mila euro per un film mai realizzato e il dramma di un duplice omicidio a sollevare il dubbio che il caso non fosse l’unico. Dubbio che si è infittito con la scoperta di un’altra dozzina di probabili frodi collegate alla stessa vicenda, perpetrate dal produttore romano che avrebbe affiancato Kaufmann/Ford nell’ottenimento dei fondi. Altre dodici produzioni, appunto, che avrebbero ricevuto oltre 4 milioni senza mai essere realizzate. Così, il dubbio fa largo a una certezza: quella dei sussidi al cinema è una tana del Bianconiglio in cui è facile smarrirsi e raccapezzarsi è forse impossibile.

A certificarlo sono i numeri del settore. Dal 2019 al 2023 hanno beneficiato del tax credit 1.354 opere cinematografiche. Di queste, solo 756 sono uscite in sala: a malapena il 57%. La riforma Franceschini del 2016 ideò il credito d’imposta proprio per introdurre un sistema di sostegno indiretto e automatico, scevro dall’intermediazione, dalla discrezionalità e dal relativo clientelismo delle commissioni cinematografiche. Un cambio di paradigma accolto positivamente da diversi detrattori degli aiuti al settore, tra cui l’economista Roberto Perotti, che elogiava “la fine dell’ipocrisia sulle commissioni che decidono quali film meritino il riconoscimento dell’interesse culturale”, sottolineando come si fosse finalmente “affermato chiaramente che si tratta di meri sussidi pubblici a un settore economico come gli altri”.

Nelle intenzioni, un principio sacrosanto; nei fatti, un sistema fallimentare. Dal 2019 al 2024, infatti, le richieste di accesso al credito d’imposta sono più che quadruplicate, provocando un boom artificiale nella produzione cinematografica e drogando un’offerta che spesso non intercetta alcuna domanda. A tal riguardo, La Scimmia Pensa, magazine di critica cinematografica, ha stilato una lista dei peggiori flop tra i fruitori dei contributi pubblici. Tra questi, una pellicola che, a fronte di 700mila euro ricevuti, ha totalizzato solo 29 spettatori in sala. A farle compagnia, altri venti film con meno di 1000 spettatori ciascuno e un incasso medio di 2000 euro, a fronte di sovvenzioni complessive per 11,5 milioni. Numeri inaccettabili per quella che, plausibilmente, potrebbe essere l’industria cinematografica più sussidiata al mondo – più di quella francese, sostenuta dallo Stato per il 30% del suo valore. Impietoso il confronto con il cinema sudcoreano, che nel 2017, a fronte di un modico investimento pubblico di 86 milioni di euro, generava valore per oltre un miliardo.

La prima incarnazione della Legge cinema risale al 1965. Eppure, all’epoca, Cinecittà aveva già prodotto cineasti del calibro di Fellini, Rossellini, De Sica e Antonioni, e il nostro era già il Paese con il maggior numero di Oscar vinti. L’equivoco dell’assistenzialismo si fonda proprio sulla convinzione che una data industria, senza sussidi, sarebbe destinata a perire: un assunto profondamente errato, che droga il mercato e genera dipendenza dalla mano pubblica al punto da divenire profezia che si autoavvera.

Dice bene Gianni Canova, critico cinematografico di razza: “se hai davvero una storia da raccontare, la necessità di fare un tuo film, il modo di convincere qualcuno a sostenerti lo trovi”. Così i sussidi, lungi dall’essere un volano di creatività, diventano mero alibi per progetti mediocri che non sopravviverebbero in un regime di libero mercato, alimentando rendite di posizione ed erigendo barriere all’ingresso. Il tutto, a esclusivo vantaggio dei grandi player del settore, posti così al riparo dal rischio d’impresa e dal più severo dei giudizi: quello del pubblico.

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