La tigre celtica non smette di ruggire. Nonostante le tensioni nei commerci globali e la volatilità dei mercati, dopo un 2023 di contrazione post-Covid e un 2024 stagnante, la Repubblica d’Irlanda torna a crescere a ritmi sostenuti, con pochi eguali nel continente. Lo certificano le nuove stime di primavera della Commissione Europea, che per Dublino prevedono un sonoro +3,4% per il 2025, mentre gran parte dell’Unione arranca. Il Paese del trifoglio torna così sui binari che, nell’ultimo decennio, l’hanno visto crescere con una media intorno all’8% su base annua.
La congiuntura particolarmente positiva trova riscontro non solo nel dato inerente il Pil; al contrario, interessa tutti i principali indicatori strutturali di un’economia tra le più dinamiche e fiorenti dell’UE e del mondo. Il parametro certamente più rilevante riguarda il reddito pro capite, ormai stabilmente sopra i 100.000 euro annui. Solo nel 2019 era pari a 80.000 euro: una cifra già invidiabile, ma cresciuta di circa 20.000 euro – ossia più del 50% dell’intero reddito pro capite italiano – in appena sei anni.
Analogamente, il mercato del lavoro risulta estremamente solido e dinamico, con un tasso di disoccupazione tra i 25 e i 74 anni tra i più contenuti su scala europea, che si attesta a un eccellente 3%. La qualità del lavoro, inoltre, è sostenuta da una produttività, anche in questo caso, da prima della classe, sopra i 125 punti. Per confronto, in Italia il parametro è cronicamente inchiodato a quota 100, maglia nera d’Europa.
A completare il quadro, nel 2024 l’erario ha riportato un surplus di bilancio di 8,6 miliardi: un traguardo che appare come un miraggio ormai a gran parte dell’economia mondiale, in una congiuntura che registra una brusca impennata nell’indebitamento pubblico globale. A tal riguardo, il rapporto debito/Pil irlandese è a circa il 40%, a testimonianza di una gestione encomiabile delle risorse prelevate ai contribuenti.
Ad ammirare un contesto così florido, viene quanto mai naturale interrogarsi sulle ragioni del miracolo economico di un Paese a storica vocazione agricola e rurale, privo di lucrose risorse del sottosuolo ed emerso nemmeno trent’anni fa da un secolare e drammatico conflitto armato che ne ha dilaniato il tessuto sociale e produttivo, condannandolo a una severa condizione di arretratezza in un’Europa che, al contrario, si involava nella rincorsa al Pil statunitense. L’inversione di rotta ha origine in un’intuizione ben precisa: né sussidi, né dirigismo industriale; al contrario, una ricetta squisitamente liberale per l’attrazione sistemica di investimenti esteri, articolata in liberalizzazioni, bassa imposizione fiscale, burocrazia efficiente e quanto più snella possibile e garanzia della certezza delle norme.
Da rilievi OCSE, infatti, la pressione fiscale reale pesa per appena il 21% del Pil di Dublino: il dato più contenuto nell’Unione Europea. L’imposta sul reddito delle società risulta tra le più basse dell’area OCSE: appena il 12,5%. Come risultato, l’Irlanda occupa la sessantasettesima posizione su ottanta nazioni analizzate nel Global Business Complexity Index 2024: una classifica che stima la difficoltà a fare impresa in un dato Paese, che certifica dunque l’estrema semplicità con cui è possibile condurre affari nella tigre celtica. L’Italia, di contro, è l’ottavo Paese per complessità più elevata.
Creato, così, un ambiente fiscale e normativo estremamente favorevole, gli investimenti diretti esteri delle principali multinazionali dell’high-tech e del farmaceutico, settori a valore aggiunto e specializzazione elevati, non si sono fatti attendere. Oggi, infatti, il Paese prospera con la presenza dei quartieri generali europei di potenze quali Google, Apple, Meta, Microsoft, Intel, Pfizer, Johnson & Johnson e Amazon. Come conseguenza diretta, il valore delle esportazioni di beni e servizi supera abbondantemente il 130% del Pil nazionale. A beneficiarne, come visto, il lavoro e il reddito dei cittadini, protagonisti di un riscatto che oggi si manifesta in un Pil nominale pro capite terzo a livello globale.
In definitiva, quello irlandese è un successo da cui è opportuno trarre una lezione preziosa. Anzitutto, testimonia che la libertà economica è la precondizione irrinunciabile del benessere di una società. Non a caso, nell’Indice della Libertà Economica 2024, stilato dalla prestigiosa Heritage Foundation, il Paese occupa la posizione di terza economica più libera al mondo, prima in UE e seconda solo a Singapore e Svizzera. L’Italia, in questo particolare ranking, è invece relegata all’ottantunesima posizione, che le vale la frustrante definizione di economia solo “moderatamente libera”.
Inoltre, il fatto che un Paese dell’Unione Europea, che per giunta adotta la valuta comune, riesca in un’impresa che alle tradizionali potenze del continente appare ormai titanica, dimostra una verità incontrovertibile: nonostante la vulgata antieuropeista, che trova gioco facile nel biasimare Bruxelles per il fallimento di politiche nazionali disastrose e con origini antecedenti l’Unione stessa, prosperare in Europa è ancora possibile. È sufficiente, a tal fine, adottare la ricetta giusta: quella che contrappone la rigidità sociale, il dirigismo e la scelleratezza alla libertà economica e alla responsabilità fiscale.