Saremmo ancora in primavera, ma le temperature lasciano già presagire un’estate torrida. Per Roma, in particolare, è prevista una bella stagione all’insegna della ressa – fatto consueto per la Capitale e i suoi abitanti, ma aggravato quest’anno dal traino del Giubileo e dagli oltre 170 cantieri ancora aperti sul suolo cittadino. Sarebbero disagi in fin dei conti sopportabili, con il sostegno di un trasporto pubblico capillare ed efficiente a decongestionare il traffico, ma l’annosa vicenda dei disservizi della mobilità capitolina è nota in tutto lo Stivale, con ATAC che continua a fagocitare risorse dei contribuenti al netto di corse di bus e metro che latitano e accumulano ritardi biblici.
In alternativa, per quanto cari, ci sarebbero i taxi. Ci sarebbero, appunto, perché le code chilometriche, a Termini così come a Santa Maria Novella o alla stazione Centrale di Milano, restituiscono una fotografia desolante dello stato di quello che dovrebbe essere un servizio pubblico in tutto il Paese, denunciato a più riprese anche dall’AGCOM. Una piaga, quella delle vetture gialle, che si estende anche Oltralpe. Da Parigi, infatti, giungono immagini ben note nelle nostre città, di arterie bloccate e centri storici presi in ostaggio da un gruppo di interesse tra i più organizzati delle nostre democrazie.
Siamo così piombati, da decenni, in un’impasse dalla quale nessuno sembra intenzionato a uscire; una “rigidità sociale”, la definirebbe Mancur Olson, economista e pioniere della teoria delle scelte pubbliche, che produce “vantaggi concentrati e perdite diffuse”, ennesimo gioco a somma negativa, di quelli che tengono in scacco un Paese intero con la complicità della classe politica, che rifugge ogni responsabilità onde evitare un contraccolpo elettorale. E così, per mero calcolo del consenso dettato dal brevissimo orizzonte temporale di una rielezione, si concede il mantenimento di uno status quo che ha tutti i connotati del corporativismo. Non a caso, il Wall Street Journal, in un articolo tristemente noto di un paio di anni fa, rinveniva nella chiusura del settore al mercato e alla concorrenza l’emblema di trent’anni di stagnazione della nostra economia.
Tariffe tenute artificialmente alte, offerta ampiamente insufficiente e barriere all’ingresso insormontabili sono caratteristiche tipiche di monopoli e cartelli, con elevati costi non solo economici, è bene ribadirlo, ma anzitutto sociali, ambientali e occupazionali. Ne sono testimonianza il triste primato di Milano come città d’Europa più cara per una corsa in taxi dal centro all’aeroporto e l’insufficienza cronica di licenze che, nella sola Roma, è stimata dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti intorno alle 2.300 unità, nonostante le mille nuove autorizzazioni il cui rilascio da parte del Campidoglio è iniziato lo scorso mese – le prime dopo vent’anni di paralisi nella Capitale. Parimenti, la probabilità di non riuscire a trovare un taxi libero è del 38% a Milano, del 44% a Roma e del 47% a Napoli, con un numero di richieste inevase mensilmente pari a 1,3 milioni a Roma e 500.000 nel capoluogo lombardo. Una situazione intollerabile per un servizio pubblico che, per sua stessa definizione, dovrebbe essere garantito, in particolar modo per rispondere alle esigenze di cittadini in condizioni di fragilità. A tal proposito, sulle mille nuove licenze erogate dal Campidoglio, soltanto 200 sono destinate a veicoli allestiti per il trasporto di persone con disabilità, in barba a ogni principio di inclusione e accessibilità.
È il costo sociale, come visto, di una mancata liberalizzazione, monopolio che sancisce un fallimento di Stato; un costo tramutato, invece, in opportunità e volano di crescita e occupazione ovunque vi sia stata un’apertura al mercato in Europa. La rottura del cartello che vigeva a Dublino fino al 2000, ad esempio, ha prodotto un incremento esponenziale delle vetture in circolazione, passate da 2.700 a 5.500 nei primi mesi successivi all’apertura alla concorrenza. Nel 2003, i taxi nella capitale irlandese erano già saliti a 8.800: una maggiore offerta sostenuta da una domanda crescente, dato l’abbattimento dei costi delle corse e, parallelamente, dei tempi di attesa, che ha prodotto un risparmio stimato di circa 400 milioni di euro per i consumatori. A livello salariale, nel mercato liberalizzato dei taxi svedese, il superamento dell’esame che abilita allo svolgimento della professione si traduce in un aumento del reddito per i lavoratori sia nativi che stranieri, con punte del 50% per gli immigrati. Di pari passo, con gli effetti benefici sull’occupazione, si registra una sensibile riduzione nel ricorso ai sussidi statali, con circa il 50% in meno di percettori di assegni di disoccupazione tra i tassisti stranieri.
Sono benefici di cui gli italiani sono ben consapevoli, al punto che il 72% dei nostri concittadini, secondo una ricerca SWG, si dice favorevole alla liberalizzazione delle licenze, con picchi di insoddisfazione per lo stato attuale del servizio che toccano punte del 78% tra i residenti della Capitale. Inoltre, con una maggiore disponibilità di taxi ed NCC e il relativo abbattimento dei costi delle corse, il 65% degli abitanti delle nostre città sarebbe propenso a ridurre l’uso dell’auto privata: un miglioramento notevole dell’impatto ambientale, con risvolti positivi sul traffico, così come sulle emissioni e sulla qualità dell’aria. Uno scenario, questo, possibile solo con la volontà politica di anteporre l’interesse comune alla rendita di posizione di una minoranza chiassosa. Al riguardo, le proposte e le ipotesi di riforma più convincenti sono innumerevoli, e meritano una trattazione apposita.