Un’altra stabilità in Europa è possibile

Un’altra stabilità in Europa è possibile

La Commissione europea, dopo una consultazione durata quasi un anno, ha presentato un progetto sorprendentemente ambizioso e in qualche modo rivoluzionario

Questa settimana a Bruxelles inizia la trattativa sul nuovo Patto di stabilità, cioè sulle regole di bilancio che dovranno essere re-introdotte in Europa dopo la sospensione — all’inizio della pandemia — della vecchia versione del Patto. In questa trattativa l’Italia sarà rappresentata dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e dal nuovo direttore del Tesoro, Riccardo Barbieri.

Si partirà dalla proposta della Commissione europea la quale, dopo un processo di consultazione durato quasi un anno, lo scorso novembre ha presentato un progetto sorprendentemente ambizioso e in qualche modo rivoluzionario. Viene abbandonato il Patto basato su rigide soglie numeriche, identiche per tutti i Paesi: l’idea è di sostituirlo con piani di riduzione del debito che la Commissione negozierà con ciascun Paese e che saranno valutati chiedendosi se garantirebbero la sostenibilità del debito.

Una seconda innovazione è la proposta di usare, come strumento per garantire la sostenibilità del debito, il percorso della spesa pubblica al netto degli interessi. Mi pare una scelta saggia perché evita che una recessione, e la caduta del gettito fiscale che la accompagna, possano indurre politiche di bilancio pro-cicliche, cioè strette di bilancio che aggravano la recessione. Un approccio fondato su una regola di spesa e su piani a medio termine produce aggiustamenti meno sensibili alle condizioni economiche del Paese.

Infine, l’orizzonte per la riduzione del rapporto debito-Pil, in principio fissato in 4 anni, diventa anch’esso negoziabile. Il vecchio Patto prevedeva che il rapporto scendesse ogni anno di un ventesimo della distanza tra il livello corrente e il 60%. Con le nuove regole gli Stati membri potranno chiedere rientri più graduali, in cambio di riforme e piani di investimento sorvegliati da Bruxelles.

La proposta della Commissione, che ha molti elementi in comune con il progetto italo-francese proposto da Draghi e Macron nel dicembre 2021, si ispira all’esperienza del Pnrr il cui disegno è molto diverso dal vecchio Patto di stabilità. Il patto lasciava ai Paesi tutte le scelte economiche strategiche limitandosi ad imporre loro un insieme uniforme di regole. Il Pnrr invece affida ai Paesi e alla Commissione, che decidono insieme, la scelta di obiettivi comuni (transizione verde, digitalizzazione, riduzione delle disuguaglianze), con una forte discrezionalità nella formulazione dei piani nazionali tenendo conto della realtà istituzionale di ciascuno Paese.

Vecchio Patto e nuove regole differiscono anche nelle modalità di esecuzione. Con il Patto eventuali deviazioni dagli obiettivi concordati erano affrontate solo tramite la moral suasion, e questa non ha mai funzionato. Nel Pnrr invece il mancato rispetto degli impegni può essere sanzionato con la sospensione dei finanziamenti, e finora questa minaccia sembra essere efficace.

Ma dietro queste differenze fra il vecchio Patto e la nuova proposta vi è un diverso modo di ottenere la riduzione del rapporto fra debito pubblico e Pil. Un primo approccio consiste nell’agire sul deficit, riducendolo: contraendo, cioè, la spesa pubblica o aumentando la pressione fiscale. Se la contrazione del deficit avviene troppo rapidamente, e con un sostegno limitato della politica monetaria, oppure aumentando le tasse anziché tagliando le spese (perché molta spesa pubblica, in primis pensioni e sanità, è difficile da tagliare), si provocherà una recessione con il risultato paradossale che il rapporto tra debito pubblico e Pil, anziché scendere, salirà. Se poi la recessione è particolarmente grave, può avere effetti sul potenziale di crescita dell’economia — scoraggiando la creazione di imprese, l’innovazione tecnologica e l’apprendimento di tecniche nuove da parte dei lavoratori — e così avere benefici limitati anche nel medio/lungo periodo. Questo tipo di aggiustamento è stato adottato dall’Unione europea negli anni delle crisi di debito sovrano (2010-13), generando un’ondata di austerità, con il risultato che alla fine il rapporto debito-Pil anziché ridursi è aumentato: fra il 2011 e il 2013, un periodo di intensa austerità, il rapporto debito-Pil aumentò in Italia dal 120 al 132,5 per cento.

Diversamente si possono mettere in campo politiche economiche per favorire un elevato tasso di crescita dell’economia, sia stimolando gli investimenti, privati e pubblici, sia con riforme che migliorino l’allocazione delle risorse produttive, in primis il lavoro. Evidentemente questa seconda strada è preferibile, visto che aumentare la crescita economica è sempre positivo, anche ignorando gli effetti collaterali sulla sostenibilità del debito pubblico. È però anche un approccio più fragile: affinché un programma di investimenti pubblici abbia effetti duraturi sulla crescita, la scelta del tipo di investimenti è cruciale. Questo significa che la scelta di quali investimenti pubblici e quali riforme attuare durante un programma di riduzione del debito richiede una valutazione attenta e realistica di quanto possano contribuire alla crescita della capacità produttiva nel lungo periodo e non solo alla crescita della spesa totale nel breve periodo.

Nel complesso il Pnrr offre un esempio incoraggiante di questo secondo approccio. La crescita italiana degli ultimi due anni ha portato a una discesa veloce del rapporto debito/Pil: da 155 a 147 in soli tre anni. Parte di questa rapida crescita è dovuta a un effetto di recupero dopo la recessione molto acuta del 2020, e parte della crescita è crescita «nominale» dovuta all’inflazione. Ma è utile ricordare che dopo la recessione del 2009 non si era avuta una ripresa altrettanto veloce e l’inflazione era stata a lungo al di sotto dell’obiettivo della Banca Centrale Europea. È ragionevole supporre che la diversa performance dell’economia italiana negli ultimi due anni sia dovuta in parte significativa al supporto fiscale che il Pnrr consente. Non è certo che gli investimenti pubblici fatti grazie ai fondi del Pnrr portino a crescita duratura, ma sicuramente la selezione degli investimenti e delle riforme che li hanno accompagnati è stata guidata da obiettivi di lungo periodo.

L’interesse dell’Italia è tener fermi due punti: restare allineata con la proposta della Commissione, rivendicandone una qualche paternità; insistere su un modello di riduzione del debito fondato su investimenti e crescita. Se il primo richiede capacità di alleanze, il secondo richiede precisi indirizzi di riforme e altrettanto precisi investimenti pubblici, capaci di attivare anche quelli privati, necessari tanto quanto quelli pubblici.

 

Corriere della Sera

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