Una doppia partita vitale per le democrazie occidentali

Una doppia partita vitale per le democrazie occidentali

In enigmistica si tratterebbe di unire i puntini. Purtroppo, il quadro che se ne compone, da Kiev a Tel Aviv, da Bucha al Negev, ha contorni via via più ampi rispetto ad aree di crisi drammatiche ma pur sempre circoscrivibili, almeno nelle speranze di molti. E vale la pena di rammentare la preveggenza di papa Francesco che nove anni fa, nell’agosto 2014, di fronte agli orrori perpetrati su civili inermi, donne e bambini in Siria e in Iraq, cominciò a parlare di «Terza guerra mondiale già in corso, a pezzetti». Con l’invasione di Putin in Ucraina il 24 febbraio 2022 è apparso chiaro a molti di noi occidentali che la resistenza di Zelensky e dei suoi era fatta anche per conto nostro e dei nostri valori, fragili finché si vuole, come lo sono la tolleranza e il consenso, ma sui quali abbiano costruito il mondo libero dal 1945 in poi, coi suoi organismi sovranazionali e una parvenza (talvolta assai precaria) di legalità internazionale. Adesso un altro passo è stato compiuto.

Ed è difficile dubitare che le democrazie stiano giocando in questi anni una doppia partita vitale su uno scacchiere che non ha più confini. Non soltanto perché, banalmente, blogger e propagandisti russi plaudono all’assalto di Hamas contro Israele in quanto «distoglie l’attenzione dell’Occidente dall’Ucraina» (e, temiamo noi, anche i rifornimenti di armi). Piuttosto perché la sfida coinvolge cuori e menti sull’approccio con cui governare le complessità del Ventunesimo secolo, interrogando tali democrazie sull’adeguatezza e la capacità di risposta di fronte alla veloce ed efficiente brutalità delle dittature. Per capirci, dietro l’aggressione dei miliziani di Hamas contro Israele e contro migliaia di innocenti civili è ben visibile il profilo della più crudele tirannia mediorientale, quell’Iran che impicca i dissidenti alle gru e ha finanziato a Sud i terroristi di Ismail Haniyeh (il leader fotografato in preghiera, nel blasfemo ringraziamento a Dio per il massacro di ebrei) e sul fronte settentrionale le basi libanesi di Hezbollah. Basta seguire i puntini per trovare migliaia di droni iraniani scagliati dall’esercito invasore di Putin sulle città, sulle scuole e sugli ospedali dell’Ucraina martoriata in questi diciannove mesi di guerra. Gli stessi puntini che ci mostrano gli istruttori militari di Mosca al lavoro nella terra degli ayatollah. Non è necessario immaginare un’internazionale delle tirannie: isolati insieme dalle sanzioni, russi e iraniani sono assai distanti, ad esempio, su dossier delicati come la Siria o l’Afghanistan.

L’intesa sta nelle cose, nell’odio per il Grande Satana o per l’Occidente Globale, nella paralisi dell’ormai inutile Consiglio di sicurezza dell’Onu, col supporto defilato di una Cina sempre più desiderosa di mettere mano senza fastidi al dossier Taiwan o di una sempre più autoritaria Algeria che ha applaudito all’azione contro Israele e alla quale abbiamo affidato forse con troppo ottimismo buona parte del nostro destino energetico, come ha rilevato su queste colonne Federico Fubini. L’inizio della Seconda guerra mondiale fu un lungo rosario di segnali non colti, scontri in teatri locali di cui non si vide la portata come la Spagna, arrendevolezze camuffate da strategie diplomatiche da Monaco in poi. Fino al 1941, con l’Operazione Barbarossa dei nazisti contro l’Unione Sovietica e il bombardamento giapponese su Pearl Harbor, non fu così chiara la dimensione planetaria del conflitto, ha osservato Paolo Mieli di recente. A costo di apparire ingenui, vogliamo crederci ancora distanti da un nuovo baratro. Ma la libertà è posta in questione in quegli stessi Paesi che propugnano guerre d’aggressione. Le dittature hanno bisogno di nemici contro i quali convogliare la rabbia di sudditi conculcati. Chi fosse tentato dal generale distacco dalla causa ucraina (il grande freddo su Kiev di cui parla Ezio Mauro) provi a rammentare qualche numero utile (a tener duro). Il primo è 684: tanti sono o, almeno, erano a fine agosto, i prigionieri politici in Russia, secondo la ong Memorial. Poco meno di quelli del regime sovietico nel 1987, settecento, prima che Gorbaciov aprisse le galere. Il sorpasso è alle viste: dal principio dell’invasione fino allo scorso 27 settembre, gli imputati in processi penali per opposizione alla guerra sono già 713, gli arrestati 19.810.

Questi dati, forniti dall’associazione per i diritti umani Ovd-Info, e le durissime forme di detenzione (con un gran ritorno dei gulag siberiani) devono far riflettere non meno della recente strage di Hroza (51 civili uccisi da un missile a una veglia funebre in un bar) chi, spesso in buonafede, è convinto sia giunto il tempo trattare con Putin. «Se mi abbandonate ve lo troverete alle porte entro il 2028», ha preconizzato Zelensky parlando all’Europa allargata di Granada. Anche dietro la mossa iraniana contro Israele, realizzata tramite Hamas, si deve leggere tutta la ferocia e l’affanno di una teocrazia che solo nel 2022 ha giustiziato cinquecento prigionieri (tra cui numerosi minorenni) e arrestato ventimila oppositori, che continua a massacrare le donne ma deve fronteggiare una rivolta ormai permanente, dilagata lo scorso anno in 139 città. Evocare il detestato nemico sionista serve molto al regime, naturalmente. Ma, come si vede, la questione coincide solo in parte con l’Islam, di cui l’Iran rappresenta la versione più arcaica e violenta. Un’ondata di islamofobia sarebbe l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. La prima, poiché in ballo è l’idea stessa di libertà, è non cedere al rancore o alla paura, sostenendo quegli avamposti di democrazia occidentale oggi a rischio, con tutti i mezzi: politici, economici e militari. Nel programma va inclusa anche l’educazione dei nostri ragazzi. Se inneggiano agli assassini di Hamas persino dei collettivi scolastici di Milano (su cui il ministro Valditara fa benissimo a intervenire) il senso prezioso delle nostre società aperte va spiegato sin dal tinello di casa.

Corriere della Sera

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