Troppa isteria sui dati economici

Troppa isteria sui dati economici

Aveva appena finito di dire che l’Italia stava attraversando un periodo di crescita ben più alto degli altri Paesi europei e che per questo aveva recuperato credibilità, che Giorgia Meloni si vede pubblicare dall’Istat dati sul Pil del secondo trimestre di quest’anno che hanno deluso tutti. Nel trimestre l’Italia è tornata ad essere il fanalino di coda dell’area euro, l’unico Paese ad avere davanti al tasso di crescita un segno meno, insieme a Austria e Lettonia. Abbiamo fatto un -0,3% (anzi per essere precisi -0,34%), contro il +0,3% della media. Ma come era sbagliato prima esultare prematuramente, sarebbe ora sbagliato dare troppa importanza al dato di un singolo trimestre. Vediamo perché e quali sono comunque i rischi.

A parte il fatto che si tratta ancora di dati preliminari, se guardiamo alla crescita nel complesso della prima parte dell’anno, l’Italia sta nella media europea. Il nostro dato del secondo trimestre segue un primo trimestre che era stato ben più forte di quello degli altri Paesi. Avevamo fatto un +0,6%, contro una crescita zero dell’area euro. Nel complesso dei due trimestri quindi la nostra crescita è più o meno dello 0,3% proprio come l’area euro. Siamo nella media. Se poi guardiamo le cose su un orizzonte più lungo, nonostante questa battuta d’arresto, tra i principali Paesi europei siamo ancora quelli che hanno fatto meglio dal periodo pre-Covid.

Siamo del 2,2% sopra al Pil del quarto trimestre del 2019. La Francia sta all’1,7%, la Spagna, che pure negli ultimi trimestri è cresciuta come un treno, allo 0,4% e la Germania allo 0,2%. Già, la Germania. Sappiamo quanto il nostro settore industriale sia legato a quello tedesco, sia come concorrenti sia come fornitori di prodotti intermedi. La bassa crescita tedesca pesa sul nostro settore industriale che si sta contraendo, mentre i servizi sono ancora in leggera crescita. La Germania ha migliorato nel secondo trimestre il proprio andamento: dopo due trimestri di calo, il Pil tedesco si è almeno stabilizzato tra marzo e giugno. Ma l’economia resta debole, il che contribuisce a spiegare anche questo nostro trimestre di debolezza.

Infine, nel complesso del 2023, centrare l’obiettivo di crescita del Pil per l’anno fissato dal governo nel Documento di Economia e Finanza di aprile (1%) è ancora del tutto possibile. Basterebbe che crescessimo dello 0,3% nel terzo trimestre (in linea con la media degli ultimi due trimestri) e dello 0,2% nel quarto. Quindi, per quanto brutto sia il dato dell’Istat, è prematuro lanciare segnali d’allarme. Non vorrei però apparire come quello che minimizza comunque la questione, per cui passiamo ora alle cose che ci debbono preoccupare.

La prima è che i problemi della Germania potrebbero continuare. La Germania avrebbe la possibilità, dato il suo basso debito di prendere misure espansive (visto i livelli ancora alti di inflazione potrebbero per esempio tagliare un po’ le imposte indirette), ma si sa che i tedeschi mollano i cordoni della borsa solo in presenza di una pesante recessione: mica si spaventano per qualche segno negativo del Pil.

La seconda cosa che preoccupa sono i dati sui consumi che sono in discesa. Prima o poi doveva succedere. L’aumento dei prezzi riduce la capacità di spesa delle famiglie, visto che gli stipendi dei lavoratori sono cresciuti meno dei prezzi. Per un po’ le famiglie vanno avanti a spendere, riducendo i propri risparmi, ma la cosa non può durare per sempre. Fra l’altro anche il risparmio accumulato in passato è stato pesantemente eroso dall’inflazione, a vantaggio dello stato il cui debito, diretto o indiretto, verso le famiglie italiane è sceso parecchio in termini reali.

La terza riguarda la Bce. Ho sostenuto che quanto ha fatto finora non è sbagliato. Il livello attuale dei tassi di interesse compensa a mala pena l’erosione del valore dei prestiti causato dall’inflazione futura. I tassi reali (cioè al netto dell’inflazione) sono vicini allo zero. Ma cosa farà d’ora in avanti la Bce? Il fatto che l’economia europea stia ancora crescendo, che l’inflazione di base rimanga fissa 5,5% e che, per la prima
volta dal 2021 sia più bassa di quella totale suggeriscono un possibile ulteriore aumento dei tassi di intesse dopo la pausa di agosto. Dobbiamo sperare che ad agosto ci sia qualche segnale di miglioramento altrimenti temo che potrebbe arrivare un altro aggiustamento di un quarto di punto. Tutto sommato, il dato sul Pil non è di per sé allarmante, ma è indubbio che i rischi sono aumentati.

La Stampa

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