Toglie dai libri di scuola le immagini di Khomeyni, Parmis Hamnava uccisa a bastonate

Toglie dai libri di scuola le immagini di Khomeyni, Parmis Hamnava uccisa a bastonate

Parmis Hamnava aveva appena 14 anni e frequentava una scuola di istruzione secondaria di Iranshahr, nel cuore della terra dei beluci, nella provincia iraniana del Sīstān-Balūcistān. Le forze di sicurezza volontarie dei paramilitari basij, affiliate ai pasdaran, l’hanno uccisa a bastonate per aver rimosso dai suoi libri di scuola le immagini del fondatore della Repubblica islamica Ruḥollāh Khomeynī.

La scuola superiore frequentata da Parmis era intitolata a Parvin Etesami (1907-41), famosa poetessa persiana che nel 1935 aveva accolto con favore la messa al bando del velo, con l’inizio della dinastia di Reza Shah Pahlavi. Nei suoi versi Etesami definiva ipocriti coloro usavano la religione come strumento politico. Da allora la poetessa diventò uno dei più forti riferimenti alla lotta contro l’apartheid di genere.

Gli attivisti per la difesa dei diritti dei beluci “Baloch Activists’ Campaign”, nel loro report riportano il fatto che l’adolescente ha sofferto di una emorragia nasale mentre era a scuola, dopo essere stata duramente picchiata, in classe, davanti alle sue compagne, dalle forze di sicurezza dopo una loro ispezione in atto nella scuola. Il 25 ottobre 2022, gli agenti avevano notato che nei suoi libri mancavano le immagini del fondatore della Repubblica islamica, il carismatico leader religioso che nel 1979 impose la legge islamica nel paese. Parmis quel giorno fu portata d’urgenza in ospedale, ma poche ore dopo è spirata.

L’intelligence iraniana ha minacciato la sua famiglia e i suoi amici, intimandoli di non rivelare ai media la causa della morte della ragazza altrimenti non sarebbe stato restituito loro il suo corpo.

Nonostante le restrizioni su Internet progettate per impedire che i giovani si dessero appuntamento e per impedire la diffusione delle coraggiose immagini delle proteste, i manifestanti sono riusciti ad aggirare la censura in Rete, collegandosi a provider VPN per trasmettere i loro messaggi e condividere filmati con il mondo esterno. Ciò ha portato all’inasprimento della repressione da parte del regime. I servizi di sicurezza controllano soprattutto le scuole e il percorso degli studenti quando entrano ed escono dal loro istituto. Non hanno scampo, l’occhio delle telecamere posizionate anche nelle aule, oltre che ad ogni angolo delle strade, li osserva e li registra.

Parmis Hamnava non è, purtroppo, l’unica vittima della brutale repressione contro il giovani che chiedono libertà in Iran.

La lista delle ragazze e dei ragazzi che stanno perdendo la vita in Iran a causa delle violenze da parte delle forze dell’ordine governative continua ad allungarsi, a oltre otto mesi dall’inizio delle proteste per l’assassinio della giovane cruda di Saqqez, Mahsa Amini, uccisa dalla cosiddetta “polizia morale” per non aver indossato correttamente il velo.

Dopo appena due settimane dallo scoppio delle rivolte per la liberazione dell’Iran dalla Repubblica islamica, dal 16 settembre 2022, nella provincia iraniana del Sīstān-Balūcistān vi fu un “venerdì di sangue” che si consumò nella città di Zahedan, capoluogo di quella provincia. Furono massacrati almeno 90 civili per mano delle forze paramilitari basij del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) dell’Iran.

La provincia del Sīstān-Balūcistān è la sede della comunità etnica beluci che professa l’Islam sunnita e per questo è vessata dal regime sciita del governo centrale iraniano.

Sull’onda delle rivolte divampate in tutto l’Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini, il 30 settembre 2022 le forze paramilitari del regime teocratico aprirono il fuoco contro fedeli e manifestanti beluchi nella moschea Ahl-e-Sunna a Zahedan, trucidando 96 persone e ferendone 350.

Secondo quanto è stato pubblicato il 23 ottobre in un rapporto di una organizzazione locale di attivisti beluchi, le proteste si estesero in tutta la provincia e numerosi altri manifestanti furono uccisi a colpi di fucile dalle forze basij.

Si trattò di uno dei più cruenti massacri compiuti dalle forze di sicurezza iraniane dal 16 settembre.

Prima del massacro di Zahedan, una ragazza di 15 anni della comunità sunnita di beluchi, nella città di Chabahar, era stata stuprata da un comandante della polizia locale. Dopo le preghiere del venerdì nella moschea Makki di Zahedan, gli abitanti in preda alla rabbia marciarono verso la vicina stazione di polizia e furono presi di mira dai cecchini delle basij appostati sui tetti delle abitazioni circostanti.

Le autorità iraniane affermano che i manifestanti erano armati, ma ciò è stato smentito dalla popolazione locale e da organizzazioni per i diritti umani che sostengono che le autorità di polizia fecero uso di droni per prendere di mira i rivoltosi, mentre elicotteri e cecchini sparavano all’impazzata sulla folla.

In quelle ore, mentre si compiva l’eccidio, il regime operò un lungo blackout di Internet. L’intera regione rimase disconnessa dal resto del paese e dal mondo per giorni.

Ma i coraggiosi attivisti del Balūcistān affermano di essere riusciti a raccogliere dati, a verificare l’affidabilità dei testimoni e delle loro testimonianze. Nei rapporti dell’Iran Human Rights (IHR), con sede a Oslo, si documenta che tra le vittime vi furono donne, anziani, disabili e bambini di appena due anni, freddati da colpi di fucile davanti alle loro case: erano stati semplici spettatori delle proteste.

Amnesty International ha documentato l’uccisione di 82 persone, tra cui 10 bambini colpiti da proiettili sparati alla testa, al torace o ad altri organi vitali.

Un medico di Zahedan dimostrò la falsità della versione del governo secondo la quale le vittime erano armate, ma la maggior parte dei feriti che ha curato e delle persone uccise mostravano con chiarezza di essere stati colpiti alle spalle mentre scappavano.

Quando il massacro è venuto alla luce, sono scattati online appelli per la donazione di sangue poiché gli ospedali di Zahedan erano stracolmi di persone ferite.

“Da Zahedan a Tehran, sacrificheremo le nostre anime per l’Iran”, cantano ancora oggi rivoltosi in tutte le città del Sīstān-Balūcistān.

I media statali iraniani diffondono la più spudorata delle propagande definendo terroristi i manifestanti anti regime e le vittime.

Le testate governative attribuirono la responsabilità dei disordini a Jaish ul-Adl (l’Esercito della giustizia), un gruppo militante islamista salafita che si batte per i diritti delle minoranze religiose ed etniche e che in passato aveva rivendicato molti attacchi alle forze di sicurezza.

Ma questa volta Jaish ul-Adl ha negato qualsiasi coinvolgimento nelle manifestazioni precisando in un suo comunicato che la loro organizzazione era rimasta inattiva durante le proteste per Mahsa Amini per non fornire al regime un pretesto per collegare i manifestanti ai gruppi di opposizione organizzati.

All’indomani del massacro, nonostante le interruzioni di Internet, molti membri della comunità beluchi, grazie ai provider VPN, sono riusciti ad aggirare la censura e a sfidare la propaganda statale che aveva definito i manifestanti come “separatisti”. Hanno condiviso post sull’agonia della loro comunità etnica vessata da decenni di discriminazione ed emarginazione, “sistematicamente” imposta dalla Repubblica islamica.

Quest’area dell’Iran è stata storicamente un facile bersaglio per il regime teocratico quando si trattava di schiacciare il dissenso col pretesto del “separatismo” e del “terrorismo”.

Il regime iraniano è arrivato addirittura a negare i certificati di nascita ufficiali a migliaia di membri della comunità beluchi, lasciandoli privati di una serie di servizi, come l’istruzione e la mobilità nella scala sociale.

Il gruppo per i diritti umani Haalvsh, nel rendicontare sul massacro di Zahedan, ha riferito che un certo numero di vittime deve ancora essere identificato poiché l’identità di queste ultime non è mai stata registrata all’anagrafe.

La popolazione delle città del Sīstān-Balūcistān e del Kurdistan iraniano, nonostante venga incessantemente oppressa e presa di mira a colpi di fucile e di granate dalle forze paramilitari, addirittura dentro le case, esce fuori a ballare. Uomini e donne ballano insieme attorno a un fuoco, ancestrale retaggio della vittoria degli oppressi sugli oppressori.

La giovane quattordicenne Parmis Hamnava, bastonata fino alla morte, era della comunità beluci. La sua famiglia come tutte le altre della comunità erano costrette a celare la propria identità non sciita. La ribellione dei giovani, donne e uomini, che è divampata dal 16 settembre 2023, ha un significato molto profondo e dirompente: i giovani sia del centro che della periferia del paese usano un linguaggio molto inclusivo rispetto ai diritti di tutte le minoranze e si registra una inedita sintonia tra centro e periferia.

La pacifica ribellione dei giovani in Iran contro il regime islamico ha già determinato una profonda rivoluzione culturale che punta a rovesciare l’intero assetto politico-istituzionale della Repubblica islamica nata nel 1979.

Per questo diciamo che una rivoluzione culturale sembra già compiuta, dopo un lungo processo durato 44 anni al culmine del quale la società, dopo l’uccisione della ventiduenne curda Mahsa Amini, appare trasformata.

Per la prima volta, dal 16 settembre 2022, la popolazione di Tehran, cuore culturale e politico del paese, è scesa in strada per ribellarsi contro l’uccisione di una ragazza curda, non persiana e non sciita, cioè di una persona che apparteneva alla periferia, al Kurdistan. E, per la prima volta, la popolazione sia del centro che della periferia, e di ogni angolo del paese, è scesa per le strade per protestare contro la morte di una donna, per giunta curda.

Questo rappresenta il primo passo di una profonda rivoluzione culturale che nell’arco di circa 250 giorni ne ha fatti compiere molti altri con l’abbattimento di fatto dell’apartheid di genere e della distanza tra centro e periferia e questa rivoluzione gandhiana ancora in corso sta provocando un vero e proprio risorgimento iraniano anche riguardo alla questione delle minoranze etniche e religiose non più viste come elemento di divisione e di conflitto, ma come componenti titolari di uguali diritti all’interno dello stato.

 

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