StAffettati

StAffettati

L’idea s’era già affacciata, ma il suo costo ne aveva suggerito l’accantonamento. Ora riciccia, con la pretesa di dimostrarsi una buona cosa per i giovani. L’immagine che hanno usato è quella della staffetta, del passarsi il testimone: dal lavoratore anziano a quello giovane. Ma caricando di ulteriori costi le casse pubbliche promette maggiori pressioni fiscali e previdenziali future, il che non è proprio nell’interesse dei più giovani. Quella staffetta li affetta. Il testimone è un torsolo.

Da quel che si capisce, lo schema potrebbe essere il seguente: un lavoratore cui manchi qualche mese o qualche anno alla pensione (più dura e più costa) accetta un part-time e in quel tempo collabora alla formazione di un altro lavoratore, di età non superiore a 35 anni, che sia stato assunto a tempo pieno e indeterminato. In questo modo si ritarderebbe l’andata in pensione del primo e si faciliterebbe l’ingresso nel mondo del lavoro del secondo. Ma per quale motivo un’azienda dovrebbe scegliere di far lavorare la metà del tempo un collaboratore già formato e di fargli utilizzare il tempo per formare un altro collaboratore che si è dovuto assumere senza che sappia fare quel che gli si vorrebbe far fare? È così evidente che nessuno lo farebbe che la proposta ha un’appendice: non dovendoci essere nessun onere aggiuntivo per le imprese, lo Stato si carica il costo dei contributi dell’uscente e dell’entrante, aggiungendo l’agevolazione fiscale per il datore di lavoro. Un marchingegno generatore di debiti e che non tiene conto della realtà su quei due lati del mercato del lavoro.

Sul lato dei pensionandi la faccenda è nota: ogni forma di agevolazione all’andare in pensione e qualsiasi numero si metta alle “quote”, il risultato è un maggiore onere a carico degli altri lavoratori e contribuenti. Il ministro dell’Economia Giorgetti lo aveva detto: con questa leva demografica non c’è margine per regalie. Ma oramai parla per sé e in gran parte a sé. Questo, però, non può tradursi in una costrizione al lavoro controvoglia, per sua natura scarsamente produttivo. La via d’uscita c’è: ciascuno vada in pensione quando gli pare, ma esclusivamente sulla base dei contributi versati. Quello è un sistema giusto, che non scippa niente a nessuno e che porterebbe a quel che s’è già visto in occasione di anticipi pensionistici che i lavoratori hanno rifiutato: si continua a lavorare per convenienza economica. Ed è bene che sia così.

Sul lato dei giovani forse non è chiara la situazione: non mancano i posti di lavoro, mancano i lavoratori. Mancano per cattiva dislocazione e mancata formazione e, relativamente a questa seconda deficienza, si tratta anche di offerte di lavoro qualificato e con prospettive di far strada o carriera che dir si voglia. La spesa pubblica è utile se indirizzata alla formazione: un investimento a favore della ricchezza del lavoratore e di quella produttiva, quindi della ricchezza generale.

Il lavoro serve a far crescere la ricchezza e il benessere. Il lavoro non è una quantità predeterminata, sicché per fare entrare uno si deve far uscire l’altro. Al contrario: più si lavora, più si crea ricchezza e innovazione e più si creano occasioni e posti di lavoro (altrimenti si dovrebbe tornare alla zappa per moltiplicare le radiose opportunità bracciantili). Il lavoro sussidiato si candida a essere improduttivo, quindi un non-lavoro che genera squilibri e debiti. I quali porteranno aggravi fiscali, che sono il ddt sterminatore del lavoro e dell’impresa.

Siamo tutti consapevoli che far politica è anche far propaganda, trovare parole facili, evocare sogni. Bene. Se poi diventano incubi la colpa non è soltanto dei politici, ma anche dei cittadini che lo consentono. Un giorno, dal loggione, uno prese a disturbare Ettore Petrolini mentre recitava; l’attore sopportò un poco, poi si spinse sul proscenio e si rivolse verso l’alto: «Io nun ce l’ho co’ te, perché così ce sei nato, ce l’ho co’ quello che te sta accanto e nun te butta de sotto».

La Ragione

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