Si fa presto a dire reddito di cittadinanza

Si fa presto a dire reddito di cittadinanza

Il tema del reddito di cittadinanza è ormai prepotentemente entrato nel dibattito politico europeo. Fino a qualche tempo fa sembrava una delle tante bizzarrie populiste dei 5 Stelle o un tipico esperimento da ingegneria sociale tanto cara ai Paesi scandinavi (in Finlandia hanno sorteggiato 2.000 cittadini-cavie cui assegnarlo per vedere l’effetto che fa).

Ora invece è diventato argomento di scontro tra la sinistra massimalista francese, rappresentata dal candidato socialista alle presidenziali Benoît Hamon che ne promette l’introduzione ed Emmanuel Macron che al contrario lo ritiene irrealizzabile e nocivo. Pensando di poterlo pagare in Am-Lire persino Berlusconi lo ha ora messo nel programma e Renzi da San Francisco propone di creare il lavoro di cittadinanza.

Pur non esistendo una definizione unica di reddito di cittadinanza, il concetto base è che chiunque avrebbe titolo a ricevere un importo minimo di sopravvivenza da parte dello Stato, a prescindere dalle sue condizioni socio- economiche. Questo reddito consentirebbe a una persona di essere partecipe alla vita della comunità. Nella proposta di legge del M5S si parla però di sostegno al reddito e di raggiungimento dei 780 euro minimi mensili “anche tramite integrazione”, e quindi si fa più propriamente riferimento al reddito minimo garantito per chi è disoccupato e che si riduce man mano che il beneficiario ha fonti diverse di reddito.

Ciò assomiglia molto di più ad un sussidio universale di disoccupazione che molti Paesi già sperimentano e cominciano in parte a smantellare perché crea la classica trappola di dipendenza per la quale non si capisce che convenienza c’è a lavorare e faticare se posso stare tranquillamente a casa e risparmiare anche inconvenienti e spese dell’occupazione (tempi e spese di trasporto, pasti fuori casa e così via).

Il reddito di cittadinanza, se applicato correttamente, avrebbe invece almeno il vantaggio di semplificare la struttura del welfare state (così come tendenzialmente si fa nell’esperimento finlandese dove peraltro è fissato a 550 euro): si assegna a tutti e in cambio si eliminano sia i difficoltosi controlli per determinare chi ha diritto a un supporto pubblico sia le conseguenti frodi; in cambio di denaro si tolgono i molteplici sostegni economici che spesso creano caos (case popolari, rette scolastiche e universitarie, abbonamenti ridotti, esenzioni, sussidi di disoccupazione, per di più tutto distribuito da una miriade di enti erogatori come Stato, Regioni, Comuni, istituti previdenziali, eccetera); si riduce l’incentivo a lavoricchiare in nero per paura di perdere sovvenzioni.

D’altronde, nonostante la grande insoddisfazione diffusa nel nostro Paese, Eurostat ha certificato che la spesa sociale in Italia è pari al 30 per cento del Pil, superiore alla media europea ma dispersa in cento rivoli e, se contiamo la più alta propensione all’evasione nel nostro Paese (circa 17 per cento del Pil), molti soldi vanno a chi ha un reddito nascosto.

Un cambiamento del nostro sistema sarebbe dunque il benvenuto. Peccato che le proposte sul tavolo siano finanziariamente insostenibili e razionalizzino poco il sistema, spacciando per reddito di cittadinanza ciò che non è. Inoltre, rimane irrisolto il dilemma che il filosofo John Rawls sintetizzò con i dollari regalati ai “surfisti della baia di Malibù”.

Oltre che essere poco accettabile da un punto di vista morale, si creerebbe un forte disincentivo a lavorare in una nazione che ha già un bassissimo tasso di occupazione soprattutto femminile. L’imposta negativa sul reddito (ti aiuto ma in modo che ti sia più redditizio lavorare che rimanere inattivo) riduce ma non elimina il parassitismo del surfista.

Un’alternativa potrebbe essere costituita dal cosiddetto reddito di partecipazione, una specie di “lavoro garantito” volontario accessibile a chicchessia. In cambio di prestazioni che né il mercato né lo Stato sono in grado di assicurare, chi ne fa richiesta riceve un reddito proporzionato all’impegno.

Si citano vari modelli come gli AmeriCorps o i Civilian Conservation Corps americani, ma l’esempio nostrano è molto più semplice: chi ha fatto il servizio civile in Italia sa di che si parla. In cambio di attività come l’accompagnare anziani o disabili o fare da usciere o bibliotecario, si riceverebbe un compenso purché al di sotto di quello di mercato ed eliminando una buona parte degli altri sostegni costosi da amministrare.

Non si deprimerebbe l’incentivo a lavorare, perché non appena il soggetto trovasse un’occupazione più retributiva abbandonerebbe immediatamente il “lavoro garantito” che paga meno del minimo salariale, anzi, nemmeno un lavoretto aggiuntivo sarebbe proibito; l’universalità eviterebbe le frodi e i controlli per capire chi ne ha diritto; ci si renderebbe utili alla società (magari imparando anche qualcosa) e si eviterebbe il dilemma morale di Malibù.

La soluzione è migliore del reddito di cittadinanza, ma, come i nostrani lavori socialmente utili ci insegnano, sarebbe lo stesso necessaria una burocrazia per trovare il lavoro più adatto al richiedente; sarebbe difficile distinguere tra prestazioni veramente utili alla società ed altre inutili (scavare e riempire le buche keynesiane o affollare di forestali zone semi desertiche, per dire) ci potrebbero essere disallineamenti tra le capacità necessarie e quelle disponibili; alcune prestazioni (spaccar pietre, ad esempio) nessuno le vorrebbe fare e, paradossalmente, si rischierebbe di sostituire degli occupati (o dei volontari!) che svolgono una certa mansione con professionalità con dei sottoccupati molto instabili (nessuno può garantire quanto rimarrebbero a disposizione) e con minore abilità.

Insomma, la riforma del nostro sistema di welfare è sicuramente auspicabile, ma deve essere concepita sulla base non solo di una analisi realistica dei costi, ma anche dei benefici e degli svantaggi che ogni soluzione comporta: difficile quindi che una soluzione ragionata appaia in clima di campagna elettorale. [spacer height=”20px”]

Alessandro De Nicola, La Repubblica 26 febbraio 2017

 

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