Si chiama Difesa la priorità dell’Europa

Si chiama Difesa la priorità dell’Europa

Negli oltre 70 anni del suo lungo dopoguerra, tra burro e cannoni l’Europa comunitaria non ha mai avuto un attimo di esitazione: meglio il burro, cioè pace, benessere e welfare-state. Naturalmente al riparo dello scudo Nato. Quella stagione beata è finita all’alba del 24 febbraio di due anni fa, con l’aggressione russa all’Ucraina e, sullo sfondo, il principio dell’apparentemente inesorabile scomposizione degli equilibri internazionali con l’Occidente in bilico. Da allora non c’è più scelta per il pacifismo europeo, se non una e obbligata: quella dei cannoni. A dirlo è la forza delle cose, il discrimine tra democrazie e autocrazie calato sul club libertario dei 27 paesi membri dell’Unione. E ancora di più, la pressione congiunta di due guastatori acclarati dell’ordine continentale: quella certa della Russia di Vladimir Putin che, spezzando l’Ucraina, spera di rinverdire passate glorie, una restaurazione di potenza ormai immaginaria.

Quella non meno insidiosa dell’America di Donald Trump II (da vedere se otterrà una nuova incarnazione alle urne) che minaccia sfracelli alla tirchia Europa e quindi alla Nato. Decisa a restare alla guida della Commissione Ue la sua presidente, Ursula von der Leyen, ha fiutato il vento, declassato il green deal, il blasone impallidito del suo primo mandato, e messo la costruzione dell’eurodifesa in cima alle priorità del suo prossimo quinquennio a Bruxelles. Con tanto di commissario alla Difesa. «Spendere di più, meglio ed europeo», lo slogan della grande svolta, da realizzare con una politica industrial-militare che punti a rafforzare le
capacità di produzione e dei sistemi di difesa più avanzati, maggiore autonomia dagli americani, oggi coprono quasi l’80% degli acquisti Ue di armamenti, appalti pubblici integrati, il tutto con più fondi e nel segno della preferenza Ue e del coordinamento con la Nato su pianificazione e standardizzazione delle armi. A prima vista la ricetta giusta al momento giusto: in sintonia con i nuovi orientamenti della maggioranza dei Governi Ue e perfino con il neo-trumpismo che ne pretende più spesa. Il 16 scorso il cancelliere tedesco, poi seguito dalla Francia di Macron, ha firmato con l’Ucraina un patto di sicurezza bilaterale di 10 anni rinnovabili, con garanzia di assistenza finanziaria e militare in caso di una nuova aggressione russa. E aggiunto altri aiuti a Kiev per 1,1 miliardi. «Noi europei dobbiamo prenderci cura della nostra sicurezza. Noi tedeschi abbiamo stanziato il 2% del Pil in spese militari nel 2023 e così continueremo da qui al 2030, abbiamo raddoppiato a 7 miliardi gli aiuti a Kiev, 6negli anni a venire» ha detto Olaf Scholz.

«Vorrei decisioni simili da tutte le capitali Ue. È vero, mancano soldi ma, senza sicurezza, tutto il resto è niente». Nel weekend la Danimarca ha deciso di inviare all’Ucraina tutto lo stock della sua artiglieria, in attesa delle munizioni europee promesse ma consegnate a metà. L’olandese Mark Rutte, probabile futuro segretario generale della Nato, avverte: «Invece di preoccuparsi di chi sarà il prossimo presidenteUsa, l’Europa dovrebbe concentrarsi su aumento delle sue capacità militari e sostegno a Kiev perché sono nel nostro interesse». Così anche i Baltici e i Paesi dell’Est. Nonostante i passi avanti, la percezione del pericolo condivisa da quasi tutti non è bastata finora a produrre una solida dottrina comune della difesa. La divergenza di vedute e di interessi tra atlantisti e autonomisti resta intatta e di fatto rallenta ogni progresso. I primi, con l’adesione di ferro di Germania, Italia e tutto il fronte Nord-Est, sono maggioranza ma l’autonomismo della Francia, sia pure un’ po’ temperato, l’ansia di francesizzare l’industria della difesa Ue bastano e avanzano per metterle i bastoni tra le ruote.

Von der Leyen prova a mediare, perché ha bisogno del consenso di quasi tutti i Governi per restare insella, ma ne scapita la coerenza dei suoi progetti. Senza contare i possibili trabocchetti nell’europarlamento: l’uscente la promosse nel 2019 per 9 voti soltanto. Salvo sorprese, quello che scaturirà dalle elezioni di giugno avrà maggioranze più liquide, meno prevedibili. Le scommesse sono aperte.

 

Il Sole 24 ore

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