Sea Watch, il naufragio della legge

Sea Watch, il naufragio della legge

Quando, alcuni giorni fa, scrivemmo su queste pagine che il fenomeno dell’immigrazione irregolare era troppo complesso per lasciarne la gestione alla Magistratura, intendevamo proprio riferirci alle contraddizioni che spesso emergono durante le indagini penali, e che possono portare a conclusioni diverse – e spesso opposte – a quelle della politica e persino del buon senso.

Il che non significa affatto che si debba prescindere dall’applicazione del codice: significa semplicemente che alcuni problemi non possono essere risolti dai giudici. Questo vale per la corruzione, per la fecondazione eterologa, per il fine vita assistito e per mille altri eventi che si presentano con un impatto emotivo nella società moderna, e che richiedono strumenti di valutazione, di controllo e di guida ben più efficaci della maestosa incertezza del processo penale.

Il quale è incerto, appunto, per varie ragioni, ma soprattutto perché ogni Procura, ogni Gip, ogni Tribunale, ogni Corte può pensarla in modo diverso dagli altri uffici analoghi, e quindi il cittadino ha l’impressione che il diritto sia una volatile aspirazione metafisica. L’esempio tipico, negli anni Ottanta, si aveva quando un pretore arrestava una bagnante in topless mentre un altro, magari nella spiaggia limitrofa, la assolveva. Oppure quando un procuratore bloccava i beni del rapito, e un altro, al contrario, assecondava il pagamento del riscatto.

Fin che si trattò di “impudiche”esibizioni balneari questa contraddizione fu ignorata; ma quando si passò alla gestione dei rapimenti, il legislatore intervenne con una legge uniforme.

Nel caso di Carola Rackete, arrestata e liberata, l’opinione pubblica si è come al solito atrocemente divisa, ma la cosa era nell’aria. Innanzitutto perché la stessa Procura aveva chiesto il solo divieto di dimora, quindi il Gip non poteva applicare una misura più grave, e poi perché una camera di consiglio così lunga non poteva che preludere a una motivata contestazione delle ragioni che avevano indotto i Pm a disporre l’arresto della capitana. L’arresto non è stato convalidato, e quindi la donna è libera a tutti gli effetti.

Questo non significa affatto che sia stata scagionata. Probabilmente il Pm ricorrerà per Cassazione, ed è possibile che la decisione del Gip venga annullata e si debba rifare tutto daccapo. In ogni caso sarà il processo a decidere sulla colpevolezza o meno dell’imputata, che nel frattempo, come è giusto che sia, è presunta innocente. Tutto questo è conforme alla nostra procedura e al nostro stato di diritto, e guai a noi se non fosse così. Il nostro severo giudizio complessivo sul comportamento della Rackete non ci fa affatto dimenticare che la carcerazione preventiva dev’essere un’eccezione giustificata-anche se questo da noi non avviene -solo da fattori eccezionali.

E la politica? La politica purtroppo sembra ignorare che il processo ha le sue regole, che a molti possono sembrare stravaganti ma che vanno rispettate. L’esempio più significativo riguarda proprio la Rackete. Il ministro Salvini ne ha proclamato l’espulsione, con esecuzione immediata. Sennonché è proprio la condizione di imputata che consente alla capitana di restare in Italia.

Avendo infatti il diritto di difendersi dalle imputazioni elevate – e da quelle suppletive di favoreggiamento all’immigrazione clandestina – non può essere cacciata e magari poi processata “in absentia”. Queste regole le sanno benissimo proprio i clandestini, che spesso si fanno arrestare per reati banali proprio perché, una volta indagati, hanno il diritto di restare qui fino alla sentenza definitiva, che, come sappiamo, interviene dopo circa un decennio. Questa è un’altra ragione, per così dire tecnica, per cui abbiamo sempre sostenuto che incriminare il clandestino in quanto tale è una follia, perché gli si attribuisce automaticamente, di fatto, il diritto di soggiorno.

Concludo. Da anni il problema dell’immigrazione è stato affrontato in modo emotivo ed elettorale, oscillante tra un indifferenziato e generico solidarismo, che aprirebbe le porte all’intero continente africano, e un altrettanto generico rigorismo che urta contro la realtà delle cose (ad esempio il massiccio rimpatrio dei clandestini) o contro le regole dello stato di diritto. La soluzione più razionale, che maggioranza e opposizione si siedano attorno un tavolo e dicano chiaro e tondo agli italiani come intendono concretamente risolvere la questione, e quella ancor più auspicabile che il tavolo si allarghi all’intera Europa, sembra purtroppo ancora di là da venire.

 

da Il Messaggero, 4 Luglio 2019 pag.1

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