Rodotà, il giurista che si fece strumentalizzare

Rodotà, il giurista che si fece strumentalizzare

Sarà stata la calura estiva, sarà stata l’ora tarda con cui la notizia è giunta in redazione, fatto sta che la morte di Stefano Rodotà non ha avuto sui giornali di ieri lo spazio che meritava. Il giurista calabrese, morto venerdì all’età di 84 anni, non è stato semplicemente un eminente giurista impiegato dalla politica più o meno direttamente in anni di onorata carriera.

È stato anche il punto di riferimento, rispettabile e radicale al tempo stesso, di un modo di intendere la politica che ha offerto, fino quasi a ieri, e continua ad offrire forse oggi,  una bussola a una parte non inconsistente dell’elettorato italiano.

Non certo la più sprovveduta, ma quella composto da giovani, ceti riflessivi, professionisti, abituali lettori di libri e giornali in un paese che notoriamente legge poco, gente che viaggia e sa anche parlare una seconda lingua. Una parte sicuramente dinamica della società italiana, la quale però non riesce a farsi sintesi politica, a dare un progetto credibile al nostro Paese, a tessere le opportune alleanze e a farsi governo.

Certo, si può pensare, con indignazione o anche con malsano senso di superiorità e autocompiacimento, che gli italiani non si meritano riforme radicali come quelle che vengono loro proposte da battaglieri intellettuali come Rodotà, che in fondo in fondo sono un popolo aduso al servilismo e moralmente, prima ancora che materialmente, corrotto, quasi che una sorta di antropologia fondata su basi naturalistiche gravasse su questo Paese e minasse alla radice, come pensava Giustino Fortunato, ogni capacità di riscossa o semplicemente di buon governo.

In Rodotà, e nella visione della politica che egli rappresentava, c’era indubbiamente anche questo elemento. Ma quello che c’era più ancora, e che forse non è stato notato a sufficienza, era un difetto nella manica, dalla parte del soggetto che voleva farsi politico più che della realtà in cui esso è stato chiamato, quasi sempre senza successo, a operare.

Sia beninteso, i limiti della concezione della politica di cui Rodotà si era fatto campione quasi paradigmatico sono vecchi almeno quanto lo è il costituzionalismo giacobino che un Edmund Burke in Inghilterra o un Vincenzo Cuoco in Italia criticavano come astratto e pericoloso, a cavallo fra Sette e Ottocento, perché, non tenendo conto delle condizioni specifiche di un popolo e in genere della realtà effettuale, finivano per aprire le porte alla più bieca reazione.

Ma ci si sbaglia se si crede che, nel caso del pensiero à la Rodotà, si sia trattato solo di un ritorno di una dialettica storica e ideologica più o meno consumata. Perché questo ritorno si è saldato, e infine ha preso il sopravvento, con un certo modo di concepire le vicende italiane che risale addirittura ai primi anni  del secondo dopoguerra, alla genesi della Repubblica.

Fu in quel frangente che le élite culturali italiane, con poche e mirabili eccezioni, abbandonate le sponde gentiliane e crociane, diverse e simili al tempo stesso, “svoltò a sinistra” in nome del progresso e della trasformazione radicale delle strutture sociali e di vita di un Paese legato per mille fili alla tradizione cattolica e a un notabilato borghese che avrebbe subito imbelle il fascismo.

Ci fu chi allora aderì direttamente al Partito comunista, ma anche chi pensò di unire in una problematica sintesi la tradizione liberale a quella di sinistra non in un’ottica riformistica e socialdemocratica ma illuministica e moralistica, spesso con la speranza più che illusoria di portare i comunisti su vaghe sponde liberaldemocratiche. E, comunque, di disegnare per l’Italia un futuro di economia fortemente socializzata (i “beni comuni” di cui parlerà poi Rodotà) e di diritti civili molto avanzati.

Fu in questo contesto che sorse il mito della Costituzione, vista non nel suo valore di “carta fondamentale” né in quello storico di alto compromesso fra forze politiche molto diverse, ma in quello di serbatoio di speranze e di promesse annunciate in vista di “equilibri più avanzati” rispetto a quelli con cui si era dovuto alla fine fare i conti.

La Costituzione, nella sua vitale ambiguità, con la sua insistenza sui diritti sociali, si prestava a questa lettura. Tanto che una Costituzione ideale o formale cominciò a vivere nella mente dei molti accanto a quella reale o materiale. E ben presto si cominciò a parlare di “promesse tradite” e di “Costituzione da attuare” o finalmente “da realizzare”.

Da qui alla “costituzione più bella del mondo”, il passo è breve. La via costituzionale o giuridica, e non quella politica, è stata vista come la più adatta a risolvere definitivamente gli atavici problemi italiani.

Costituzionalizzare i bisogni, farli diventare diritti e sottrarli alla lotta politica, è stato il modo con cui i Rodotà e i Zagrebelsky, spesso non rendendosi conto della cifra illiberale della loro posizione, hanno pensato di offrire un’alternativa spendibile ai progressisti italiani, soprattutto dopo la crisi definitiva del marxismo.

Ma i limiti eticizzanti di questa posizione, che finisce per stabilire a priori ciò che è buono e giusto per una società, hanno finito per impigliarsi in contraddizioni interne e per essere sconfitti proprio quando i loro nemici sembravano aver fatto di tutto per screditarsi davanti all’elettorato.

È storia recente, quella in cui l’antiberlusconismo ideologico e moralizzante non solo non ha capito le spinte profonde da cui Berlusconi traeva, almeno all’inizio, linfa vitale, ma ha finito per ritrovarsi fuori gioco proprio mentre la seconda Repubblica volgeva al termine e in Italia si sentiva forte l’esigenza di una alternativa politica seria e credibile.

Per una sorta di contrappasso, il nemico storico dei Rodotà ha finito per assumere le improbabili vesti di uomo saggio e di novello “Padre della patria” proprio in questo frangente.

Ma storia ancora più recente è quella in cui un borghese per temperamento e cultura come Rodotà si è fatto ingenuamente strumentalizzare nella corsa al Quirinale dal più incolto e populista dei movimenti politici sorti nel frattempo sulla scena.

I semi del rodotismo continueranno a vivere ancora per molto nella società italiana, ma anche a sinistra non si potrà più prenderli come riferimento politico. La politica, anche quella più radicale, non ammette scorciatoie: né etiche, né giuridiche.[spacer height=”20px”]

Corrado Ocone, Il Mattino 25 giugno 2017

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