Quinquennio

Quinquennio

Ogni tanto lo ripetono, come fosse un’improvvisa scoperta o una sicurezza incerta, sicché meglio rammentarla a sé stessi: dureremo cinque anni. Tutto sta a capire cosa significhi, quell’auspicato lustro. Che una legislatura duri cinque anni è scritto nella Costituzione, entrata in vigore il primo gennaio del 1948. Non una novità. Lo stesso testo prevede che il Presidente della Repubblica possa sciogliere prima, ma perché ciò avvenga non basta un capriccio, occorre che in Parlamento non ci sia più una maggioranza funzionante. Il che porta al governo: durante tutto il corso della legislatura i parlamentari sono sempre gli stessi, salvo luttuosi trapassi, quindi il primo governo che riceve la fiducia può avere durata quinquennale, pari alla legislatura, se i fiduciosi votanti non cambiano idea. A far cadere un governo non è chi non lo ha mai voluto, ma chi lo volle e ci ha ripensato. Che dureranno cinque anni, quindi, lo dicano a sé stessi. Sperando di convincersi.

Veniamo subito alle questioni di contenuto, le sole che contano, le sole su cui si dura utilmente o inutilmente o non si dura proprio. Prima un’osservazione che spero induca prudenza: la maggioranza parlamentare (non il governo, qui la confusione diventerebbe velenosa) propone riforme costituzionali, convinta – come tanti – che la stabilità, la durata quinquennale, sia faccenda costituzionale. Non è mai vero, in nessun sistema. Si vince prendendo più voti e si governa mantenendo il consenso. In democrazia governare non è sinonimo di comandare. Si è ripetuto alla noia che l’Italia ha sempre avuto governi di breve durata, ma dal 1948 al 1992 ne conto quattro: centrismo, centrosinistra, parentesi solidarietà nazionale e pentapartito. Con frequenti ribilanciamenti e incarnazioni, è vero, ma se guardate alle altre democrazie europee troverete le stesse varianti, semmai i nostri governanti (Andreotti su tutti) assai più stabili – direi intramontabili – che altrove. Dunque intendono durare cinque anni, in questo quadro costituzionale. A quel che si vede ora, non saranno certo le opposizioni a rendere più difficile il traguardo. I demolitori, semmai, li hanno dentro.

A mettere in difficoltà il ministro Nordio, a far tremare le giuste, ragionevoli e fin ovvie cose che sostiene non è l’opposizione politica in Parlamento (posto che una parte di quella, Azione, lo sostiene), ma l’urto corporativo delle Procure. Tanto che è toccato a un ex pm avvertire il pericolo che la politica si lasci intimidire dai pm. Allora: la maggioranza e il governo reggono alla grande l’opposizione parlamentare, ma reggono quella delle Procure? Non si divideranno, sotto quella pressione, e Nordio si dimetterà? Serve a nulla appellarsi al quinquennio, piuttosto dovrebbero passare ai fatti: a parte i decreti buco e pezza, da che parte comincia e in che tempi la riforma della giustizia? Gli aspetti costituzionali vanno nella pentola delle altre riforme o vengono cucinati a parte? Le risposte servono ora, non nell’arco dei quinquennio.

Che il governo cambi dei funzionari, anche alti, ci sta. Ma non è bello sorridere all’idea che il ragioniere generale paghi i 44 rilievi alla legge di bilancio. Pensare che debba plaudire è come volere un sistema d’allarme antincendio che non diffonda allarme e non irrori i presenti.

Si cambi pure il direttore generale all’Economia, ma quale indirizzo si fornisce al nuovo? Servono indicazioni sul negoziato del patto di stabilità, sulla vendita di titoli del debito, sulla gestione dei pacchetti azionari di società quotate in Borsa. A noi importa poco che sia Tizio o Caio, ma se prendo Tizio perché più competente e coerente con l’indirizzo del governo è buona cosa; se prendo l’amico perché tanto fanno la stessa cosa è faccenda mediocre; se la preferenza va a chi farà quel che dico, senza farmene discutere in Parlamento, è pessima faccenda.

Le risposte non possono attendere cinque anni, perché senza quelle sarebbe un pentaspreco a marinare nel nulla. Ammesso che, in quel modo, il quinquennio non si riduca a un quinto.

 

La Ragione

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