Quella sera, al Raphael, iniziò l’inverno della politica

Quella sera, al Raphael, iniziò l’inverno della politica

In piena Tangentopoli, l’Italia si ribellò a una classe politica. Il 30 aprile 1993, il primo a pagare il conto della piazza fu il segretario del Psi. «Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio». L’assalto delle “monetine” raccontato, per la prima volta, da chi era accanto al suo leader

 

La storia, quando decide di farsi, mica ti avverte. E spesso, manco te ne accorgi; soprattutto se ci sei dentro. Così è stato per quel 30 aprile del 1993: la sera delle “monetine al Raphaël”. Per anni, ben 30, ho letto racconti e testimonianze di quell’evento. Alcune precise e attente – tra tutte 30 aprile 1993 di Filippo Facci – e altre decisamente liriche e romanzate o semplicemente cialtrone. Come faccio a sostenerlo? Ero lì, dentro quella macchina bersagliata da una grandinata di odio; seduto alla sinistra di Craxi. Perché? Ero il segretario dei Giovani Socialisti; avevo 26 anni e oggi sono, probabilmente, il più giovane fossile vivente della “Prima Repubblica”.

Andiamo per ordine. Cosa stava accadendo? L’Italia, dimentica degli anni Settanta, quelli di piombo, voleva cancellare gli anni Ottanta, quelli dell’edonismo reaganiano, per ribellarsi a una classe politica che, si sosteneva, avesse impoverito e distrutto il Paese. In realtà, l’Italia era uscita da una drammatica crisi economica, passando, col Governo Craxi, dal 17° al 5° posto nel mondo. Aveva abbattuto l’inflazione a due cifre obbligando il futuro del suo esecutivo al successo del referendum sulla Scala mobile. Ma, si sostiene, il debito lievitò. In realtà, il Paese aveva in corpo tre metastasi: il terrorismo, l’inflazione e il debito. Si decise di aggredire le prime due confidando sul fatto che l’Italia, a differenza per esempio degli Usa, aveva il 90 per cento del proprio debito contratto con i suoi cittadini (padroni negli anni Ottanta, per il 70 per cento, delle loro case).

Ma torniamo all’insurrezione della “società civile”. Quest’ondata rivoluzionaria, in verità, non esplodeva solo in Italia, ma in Francia, Germania, Spagna, Belgio, Portogallo, Grecia; insomma, alla fine della Guerra Fredda venivano mandate a casa intere classi dirigenti con una modalità che il libro di Daniel Soulez Larivière chiamerà il «Circo mediatico giudiziario» (in Russia, per esempio, la si spiegava così: “Lo sai che differenza c’è tra un politico e una mosca? Nessuna, si ammazzano entrambi con un giornale”). Il clima non era dei migliori. Gianfranco Funari, nel 1992, su Italia Uno, faceva spot dal tono “Vai avanti Di Pietro!” – poi verrà con me ad Hammamet, ricredutosi su quella stagione, per incontrare Craxi – e ancora, negli anni successivi il più diffuso settimanale del tempo, TV Sorrisi e Canzoni, usciva con la copertina dedicata all’idolatria del magistrato di Montenero di Bisaccia (11 luglio 1992: Di Pietro facci sognare; 12 febbraio 1994: Di Pietro Bis). Silvio Berlusconi, editore del settimanale, intervistato in quei giorni sulle accuse rivolte a Craxi, se la cavò con un diplomatico «Ci saranno i processi», frase alla quale Craxi rispose, puntando il ditone verso il televisore di fronte a noi: «E i prossimi saranno i tuoi!» (in realtà gli voleva molto bene, ma non serviva Nostradamus per capire che sarebbe andata a finire proprio così).

Tangentopoli nasce per fatti consumatisi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della “Prima Repubblica”). Con questo artificio, il finanziamento veniva definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti: oltre 4mila arresti, 42 suicidi, 25mila avvisi di garanzia, 1.069 parlamentari e uomini politici coinvolti. Questa è stata Tangentopoli. Non una guerra. Ma nemmeno una bella pace. Per questo Craxi, unico dei leader della politica italiana, andò a fissare alcuni concetti nel luogo deputato: alla Camera. In realtà lo fece in più appuntamenti tra il ’92 e quel ’93. Disse cose laceranti per i partiti che «hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale».

Attenzione non è il “tutti colpevoli, nessun colpevole”. No, è il tutti colpevoli e basta. Incassò un silenzio assordante. Sarebbe bastato che si fosse alzato uno dei presenti per fare, che so, una pernacchietta. Niente. Tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico. Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. Per questo, in politica, chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere. O faccia leggi per scongiurare questo ricatto. E così, trent’anni dopo, ci ritroviamo tra contenziosi per scontrini, leader politici consulenti di sceicchi e combattive brigate per la difesa dell’indennità non riversata al partito. Ma se vi rileggete o ascoltate gli interventi di Craxi e poi li confrontate con quelli dei leader che sono seguiti, il sentimento più naturale da cui sarete pervasi è lo sconforto. Craxi, va riconosciuto, era assai odiato. Sarà per quella “x” sparata in mezzo al cognome, sarà per l’altezza e “quel suo guardarti
dall’alto in basso” (ma se era più di un metro e novanta che avrebbe dovuto fare? Accucciarsi?), sarà per quella vocazione a decidere in un Paese notoriamente indeciso a tutto, ma così era.

E c’è una parte di quelle sue denunce, dentro il Parlamento, che produsse mutismi ancora più rumorosi (o per chi è suggestionabile, inquietanti). Leggete qui cosa dirà, sempre in Parlamento, nel 1993, sui fatti più clamorosi di quei mesi: «Chi sono i criminali che hanno messo le bombe di fronte ai monumenti d’arte, basiliche, luoghi storici e che probabilmente tenteranno di metterne ancora? Chi sono gli assassini che hanno provocato stragi di cittadini innocenti e di servitori dello Stato? (…) C’è una strategia, una tempistica, degli obiettivi che vengono perseguiti con una violenta determinazione. Ritengo che, non da oggi, agisca nella crisi italiana una “mano invisibile”, che punta a esasperare tutti i fattori di rottura e per ottenere questo scopo non esita a ricorrere al classico metodo criminale del terrorismo. Terrorismo mercenario e professionista, non terrorismo ideologico».

Ma di che parlava quest’uomo, tutt’altro che suggestionabile, già presidente del Consiglio e incaricato per l’Onu per le politiche del debito? Il clima rimosso e mai esplorato di trent’anni fa annotava decine di strani furti in case di parlamentari, ministri e leader politici. Il 3 gennaio del 1990 venivano rubate al capo della Polizia, Vincenzo Parisi, le pistole di ordinanza dalla sua auto. Seguiranno sue denunce alla Commissioni stragi il 9 gennaio del 1991 («Vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno») e una sua circolare, “Riservata”, ai Prefetti, datata 16marzo 1992 in merito a un piano per «destabilizzare l’Italia ». È incredibile che di quegli anni, per esempio, sia stato dimenticato il blackout di Palazzo Chigi seguito, immediatamente dopo, alle bombe di via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma nella notte tra martedì 27 luglio e mercoledì 28. Il Palazzo del Governo non venne isolato per un guasto della centralina interna, ma per un blackout indotto dall’esterno.

Torniamo alla vigilia di quel 30 aprile. Si votava l’autorizzazione a processare. Craxi e noi sapevamo che saremmo stati sconfitti (io ero seduto sulle tribune della Camera, alle sue spalle, non essendo parlamentare). Ma la votazione andò diversamente. I miracoli sono una cosa seria, e non si scomodano certo per vicende così mondane. Accadde solamente che diverse forze politiche, che avrebbero voluto gridare allo scandalo, votarono nel segreto dell’urna per salvare Craxi in aula. E poi scannarlo in piazza. E così andò. Siamo al 30 aprile. Con Craxi dividevamo un ufficio in via Boezio (il partito, come l’intera classe politica, si stava “onestizzando” e quindi non c’era più spazio in via del Corso per lui, e il sottoscritto, nella sede del Psi). L’ufficio verrà soprannominato dalla stampa “il covo di via Boezio” in ragione dei segretissimi dossier lì contenuti: per la maggior parte le cartelline dei miei articoli ritagliati (in verità molto ordinati). Si trovava nel palazzo accanto allo stabile in cui vivevano l’ex presidente Francesco Cossiga e l’allora sindaco di Roma, Francesco Rutelli, in via Quirino Visconti; sotto di noi, uno dei primi centri massaggi dalle prospettive equivoche (una volta, fuori Roma, vidi la notizia sul Televideo: «S’incendia l’ufficio di Craxi», ma in realtà, fortunatamente, era il centro massaggi, probabilmente in ragione dell’escandescenza di qualche focoso cliente). Quella mattina Serenella Carloni, la storica segretaria di Bettino, mi aveva confermato che lui non si sarebbe affacciato da noi.

Craxi decise quel giorno di non lasciare l’albergo. Viveva al Raphaël, di proprietà del suo fraterno amico, Spartaco Vannoni, ex comunista, mancato qualche anno prima. La sua stanza era un monolocale in cui tutto sembrava arredato con la cura dello studio di Geppetto nella balena di Collodi: libri, cimeli garibaldini, carte, quotidiani, riviste e poi ancora libri (e se cercavate gli anni Ottanta trovavate quelli del secolo precedente). Arredamento: ordinario disordinato. Il Raphaël si affaccia su Largo Febo; Febo, probabilmente, sta per Apollo, dio adottato da Augusto come difensore delle tecniche, scienze, bellezza e della luce. E qui il mito diventa strabico: Largo Febo è stretto e buio. Si trova a pochi metri da PiazzaNavona, ma non la vede (un po’ come stare al Louvre, a qualche metro dalla Gioconda, e avere la vista sui bagni). A spanne misurerà, a vantarsi, 200 metri quadri. Per ospitare coloro che giurano, in una sorta di proiezione isterica collettiva, di essersi ritrovati quella sera in quel luogo, a urlare o semplicemente a guardare, sarebbe servita una piazza un poco più grande di piazza Tienanmen. La facciata dell’albergo è la quinta scenica di questo teatrino e il nome rimanda, forse, a Raffaello che ha affrescato l’arco della cappella Chigi a Santa Maria della Pace alle sue spalle.

Intanto il tormentone, quotidiano, della mia risposta alla prima telefonata di Craxi: «Cosa bolle in pentola?» «Noi», quel giorno suonava meno ironico. La stampa strillava allo scandalo e alcuni quotidiani erano usciti in formato manganello etico (il giornale che, ripiegato più volte, offriva per tutta la lunghezza la scritta “Vergogna!” a caratteri cubitali, maiuscoli e in grassetto). L’unico appuntamento della giornata era l’intervista in diretta, in prima serata, con Giuliano Ferrara (presso gli studi di Canale 5). Di ora in ora, le forze dell’ordine modificavano il loro assetto con alternanza di corpi e mezzi; all’interno del Raphael molti i poliziotti; quelli in borghese si riconoscevano dal tintinnio delle manette appese alla cintura. Perché le manette? Per l’intera giornata feci la spola tra via Boezio e il Raphaël per incontrare quegli amici e collaboratori ancora storditi dall’imprevista notizia del giorno prima; in realtà ero furibondo per non essere riuscito ad armare un manipolo sufficiente a reagire a quel clima (il mio spirito cristiano si ferma a porgere la seconda guancia; oltre si può reagire).

Mi muovevo con lamia “moto blu”: un Peugeot Metropolis di terza mano, appunto blu, privo di diversi elementi funzionali e decorativi, così da renderlo, almeno fino al 1997, resistente al furto. Il rumore di quelle ore si era apparecchiato attraverso numerose giornate di silenzi; silenzi a pranzo, silenzi a cena. Non c’era nessuno, perché lui non voleva più vedere nessuno e perché molti avevano paura a farsi vedere con lui. Meno male che qualcuno veniva a trovarci nelle nostre case e nei nostri uffici. Solo che avveniva quando noi non c’eravamo. Craxi, la sua famiglia e il sottoscritto ricevemmo in quel periodo, in quelle abitazioni, 11 perquisizioni vestite da furti. Forse era per toglierci qualcosa, forse era permettercelo. Ma almeno ci tenevano vivi regalandoci un po’ di attenzione. Il Pds aveva deciso di organizzare a Piazza Navona, per il pomeriggio inoltrato, la manifestazione del suo popolo, così da urlare la sua indignazione e poi farla confluire nella piazzetta alle spalle. Per l’intera mattinata, le agenzie, radio e telegiornali avevano soffiato sul clima di rivolta nel Paese: fax, proteste, mancavano le processioni, ma il Paese “civile” stava reagendo (Gianfranco Fini, per esempio, annunciò iniziative esemplari e il Secolo d’Italia pubblicò il numero del Quirinale, così che i cittadini «potessero far pervenire alla Presidenza della Repubblica il loro sdegno»). A Roma si dice che «l’inventore della forca ci morì impiccato», conseguenza del «c’è sempre un puro più puro che ti epura», ma la predestinazione di zona era incline alla tipologia di spettacolo: Mastro Titta, il boia di Roma, esercitava la sua apprezzata professione qualche via più a nord, mentre poco più a sud fu arso vivo Giordano Bruno e un po’ più a sud ovest fu squartato Cola di Rienzo.

Insomma, quando Craxi, in Tunisia, mi ripeteva «in fondo, nella lotta politica, morire nel proprio letto è un privilegio», penso focalizzasse questi esercizi della creatività umana. Verso le otto della sera mi avverte che sta per scendere. Mi allontano dal poliziotto che mi marcava
per invitarmi a suggerire a Craxi un’uscita sul retro (decisamente allarmati per il disastro tattico che aveva consentito il crearsi di quell’assembramento di fronte all’albergo). Sceso nella hall, tutto si consumò velocemente. Craxi rivolse delle premurose scuse agli ospiti dello hotel, involontari spettatori di quel disordine, e quando il poliziotto mi pregò con gli occhi di anticipare la proposta di dipartita tattica, fu facile anticiparlo: «Glielo dica lei». Non credo che Craxi abbia nemmeno ascoltato l’invito. Continuò a marciare verso la porta principale e, controllato che ci fossimo tutti, sibilò: «Andiamo!». “Tutti” eravamo tre: Nicola Mansi, il fido “orso biondo”, la gigantesca ombra, autista e guardia del corpo, di Craxi; Umberto Cicconi, suo fotografo, una faccia da Hollywood pronta a farsi esplodere per Craxi, e il sottoscritto. E quindi andammo incontro all’onda. E la sera diventò giorno di flash. E non fu un disegno mediatico. Infatti, il giorno dopo nessun quotidiano racconterà quel fatto in prima pagina e quelle immagini, ripetute all’inverosimile, saranno il frutto della casuale presenza di una troupe (idem per quei pochi scatti fotografici rimasti).

L’auto blindata, una Thema, un cassone inguidabile e impacciato, veniva battuta da caschi e da ogni tipo di oggetto disponibile alla calca umana che usava la macchina come un tamburo. Nonostante la palese assurdità dell’accerchiamento – in quella stagione di bombe e attentati – non celebrai il rito scaramantico che si compiva a ogni entrata in auto: girare la mezzaluna interna alla carrozzeria blindata per infilare la canna della mia Colt Calibro 38. Avevo 26 anni, appunto, ma giravo armato – con regolare licenza – dopo la terza visita alla mia abitazione
nella quale mi era stato lasciato un proiettile sulla scrivania; io da quel giorno ricambiai i sopralluoghi indesiderati preparando una selezione
di carte che volevo i miei interlocutori approfondissero, insieme a un bicchiere d’acqua e un cioccolatino. Lassativo. Sul lunotto di quell’auto guardavamo intanto i volti stravolti da una ferocia e da un’eccitazione invasata. Capivamo che si stava consumando un rito espiatorio: il problema è che il capro eravamo noi. Quindi, in quella sera illuminata a forca, la macchina avanzò lentamente; sia Umberto che il sottoscritto eravamo stati feriti da qualche oggetto, ma l’imperativo che Craxi ripeteva, controllato e senza tradire emozione, era: sorridete. Non era un gesto provocatorio, ma l’ultima arma che ti rimane quando sei circondato dai fumi dell’irrazionale: ridergli addosso. L’inverno della politica stava sfumando, lasciando spazio alla primavera dell’antipolitica. Ovvero, la politica di qualcun altro.

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