Perché i liberali sono per l’abolizione del valore legale del titolo di studio

Perché i liberali sono per l’abolizione del valore legale del titolo di studio

Agli inizi degli anni Duemila, al culmine dei trionfi della new economy, quando sembrava che niente e nessuno sarebbe mai giunto a interrompere la fantastica cavalcata della crescita mondiale basata sulla information technology, un istituto di ricerca di Londra pubblicò una ricerca che fece sensazione. Diceva che nei vent’anni successivi i mestieri più richiesti sarebbero stati quello di parrucchiere, di gran lunga al primo posto, e di badante al secondo.

Il risultato

La previsione colpì per la semplice ragione che gli esperti e i media ripetevano invece tutti come un mantra che il mondo andava verso la «knowledge economy», l’economia della conoscenza, in cui solo chi avesse avuto un alto livello di educazione poteva sperare di diventare così flessibile da adattarsi ai cambiamenti continui indotti dall’innovazione nel mercato del lavoro.

I partiti di sinistra, tradizionalmente concentrati sull’obiettivo della uguaglianza di reddito, ci credettero così tanto che lo sostituirono con l’uguaglianza delle opportunità: il compito dello Stato doveva essere solo di offrire a tutti una educazione di alto livello, poi il mercato avrebbe scovato quelli bravi.

Come è noto, così non andò, e non solo per la recessione del 2008. Aveva ragione quella ricerca. I lavori più facili da trovare nei due decenni del Duemila sono stati del genere parrucchieri e badanti, cioè lavori che apparentemente non richiedono un alto grado di competenza e specializzazione. I lavori nuovi che sono stati creati, e che ci aspettavamo di vedere nei laboratori di ricerca, per camici bianchi, sono stati invece spesso su una bici a consegnare pizze. E se fare il parrucchiere è certamente una possibilità (anche se il mio barbiere dice che i nuovi arrivati sanno usare solo la macchinetta e non più le forbici), per fare il/la badante gli italiani sono fuori mercato, grazie alla vasta manodopera a basso costo disponibile tra i gruppi di immigrati.

L’errore di previsione

Ci eravamo dunque sbagliati? I laureati non trovano lavoro e dunque a che serve l’educazione?

Vi stupirà sapere che si tratta di domande vecchie come il cucco. Già negli anni ‘50, nelle sue «Prediche inutili», Luigi Einaudi, il grande economista liberale e secondo presidente della Repubblica italiana, rispondeva sul tema in questo modo: «Ho interrogato parecchi giovani americani sul problema della disoccupazione nel mondo universitario americano e vidi che la domanda non era neppure capita… i milioni di baccellieri e di masters, i quali escono dagli istituti universitari americani, sanno che il diploma non dà diritto a nulla… in me è sempre vivo il ricordo del 1926, quando, per invito di un noto economista, visitai un suo podere in uno stato del centro. Nella stalla, il vaccaro mungeva la mucca. Il collega, dopo averlo presentato, aggiunse: “Questi è un diplomato della mia università”. Come costui, nove decimi dei diplomati americani non sognano neppure di fare gli intellettuali solo perché hanno frequentato una Università e in essa si sono diplomati».

Domanda e offerta

Che cosa voleva dirci Einaudi? Che l’istruzione non serve a nulla? Nient’affatto. «Nessuno – scriveva – ha mai sostenuto la tesi che sia migliore una popolazione di analfabeti piuttosto che una popolazione di uomini e donne meglio istruiti».

Tra l’altro, c’è da chiedersi se l’America si sarebbe mai risollevata dalla Grande Crisi che tre anni dopo quella visita l’avrebbe sconvolta, se non avesse avuto laureati anche nelle stalle. Piuttosto Einaudi ci stava dicendo che il lavoro dipende dall’andamento e dai bisogni dell’economia. Per cui, per tornare al nostro esempio, in un’epoca in cui i servizi alla persona sono fortemente richiesti, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, parrucchieri e badanti trovano più facilmente lavoro. Di conseguenza anche l’atteggiamento mentale dei giovani e delle famiglie deve cambiare, perché l’istruzione è un formidabile arricchimento della persona e della società, ma la laurea non è un voucher per il lavoro. Che va trovato altrimenti.

La crisi dei laureati in Italia

Invece noi viviamo nel paradosso di essere uno dei paesi con il più basso numero di laureati tra le grandi economie europee ma con uno degli indici più alti di disoccupazione cosiddetta intellettuale, cioè di laureati e diplomati.

In compenso abbiamo un’economia basata sull’industria manifatturiera, in cui siamo ancora i secondi in Europa, ma nei nostri istituti tecnici specializzati (Its) studiano solo diecimila studenti, contro gli ottocentomila della Germania, nostra principale competitrice. Forse che quella istruzione non è istruzione? Nelle Berufsschulen tedesche si accede a un contratto di formazione in azienda prima ancora che si cominci la scuola, ma con l’accredito fornito dalla scuola. È una educazione che mette in relazione con il lavoro da subito. Ma allo stesso tempo non è un ghetto perché resta aperta per chi vuole la strada della università e del lavoro intellettuale.

La delusione di milioni di giovani cui in questi anni abbiamo promesso un buon lavoro in cambio di una laurea ha creato risentimento e rabbia, e gonfiato ovunque le vele dell’antipolitica e del populismo. Forse è arrivato il momento di fare i nostri figli un discorso di verità.

Antonio Polito

testo pubblicato il 02.05.2019 su corriere.it con il titolo “Giovani, laureati e disoccupati. La verità sul lavoro (che nessuno dice”

 

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