Penando

Penando

Una nuova legge per scriverci cosa? Le leggi non cancellano il male dalla storia, servono a fissare il confine fra il lecito e l’illecito, punendo gli sconfinamenti. Un orribile omicidio ha non soltanto ricordato che il male esiste, che è radicato nell’animo umano, ma ha anche portato alla luce il vaniloquio di chi si lancia verso l’aumento delle pene e di chi si butta su concetti come prevenzione ed educazione. Oltre al dolore per quella giovane vita rubata si deve avere la forza di guardare in faccia la realtà per quella che è, senza bendarsi di pregiudizi.

Le pene come disincentivo al crimine sono una bufala già da secoli riconosciuta come tale. Gli Stati americani con la maggiore presenza di crimini di sangue sono gli stessi in cui c’è la pena di morte. Da noi il problema non sono le leggi (sempre migliorabili, ma senza l’illusione che basti condannare per lasciar credere di cancellare), semmai la giustizia. Ovvero la capacità di punire tempestivamente. Con particolare attenzione ai così detti piccoli reati, che non soltanto non sono piccoli per chi li subisce ma spesso segnano le tappe di una carriera criminale che prima la si stronca meglio è. Da noi il problema è l’esecuzione della pena, talché non si finisca in vincoli prima del processo e magari se ne esca dopo la condanna e affinché non capiti di leggere che chi ha ucciso esca dalla cella perché è ingrassato. A questo servono edifici carcerari adeguati e civili: a che un giudice non ne faccia uscire il condannato perché malandato.

La responsabilità penale è personale non per amore di una rima, ma perché si punisce chi ha scelto di praticare il male. Se si comincia a dire che quel male si spiega con tare sociali o culturali forse non ci se ne rende conto, ma si alleggerisce la posizione del criminale. Che è colpevole in quanto individuo, non in quanto appartenente a un genere o a una etnia.

L’educazione conta, eccome se conta. Ma cos’è l’educazione? Non certo il pistolotto settimanale sul rispetto e sulla bontà. Serve a nulla. L’educazione è trasmettere la capacità di dominare e coartare i propri istinti naturali: se desideri molto una cosa non è un buon motivo per prenderla, se molto la detesti non è un buon motivo per cancellarla. L’educazione non è la sola conoscenza dei diritti, ma la pratica dei doveri. Per questo servono cultura, letteratura, filosofia, storia, capacità di ragionamento analitico, geometrico, matematico. Serve la scuola seria, non la testimonianza di passaggio. Serve insegnare a fare i conti con le sconfitte, con le umiliazioni e con il dolore, non cancellare i voti onde evitare che qualcuno li prenda male.

Se si vuole che ci sia più coscienza collettiva, capace di riconoscere il male, occorre non metterla fuori strada. È irritante leggere i numeri relativi alle donne ammazzate messi in relazione con questo o quel governo. Che sia per condannarli o incensarli è senza senso, perché i governi non c’entrano nulla. È vero che in Italia ci sono meno donne ammazzate della media europea e meno che nei Paesi del Nord Europa ed è vero che diminuiscono (troppo lentamente). Il dato non dev’essere nascosto (noi gli dedicammo uno specifico approfondimento) ma deve essere capito. Perché se la causa fosse il “patriarcato” ne deriverebbe che ce n’è di meno in Italia e in Spagna rispetto ad altri Paesi europei. Quel numero non deve servire a consolare – che anche una sola persona morta ammazzata è già troppo – ma a evitare di abboccare a spiegazioni tanto facili da non spiegare niente.

Una società aperta e paritaria, non soltanto per genere, è una società più esposta ai pericoli che l’esistenza del male comporta. Non è un buon motivo per rinunciare all’apertura, ma per capire che la libertà ha bisogno di responsabilità. Collettiva e individuale. Non serve scriverlo in una legge, serve praticarlo. Specie se si fa politica, se si ha un ruolo pubblico. Specie se si hanno dei figli. Si chiama “esempio”. È penando la fatica della libertà che si migliora il mondo in cui si vive.

La Ragione

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