Ocone: “Vi racconto il mio liberalismo”

Ocone: “Vi racconto il mio liberalismo”

La cultura liberale. Breviario per il nuovo secolo è il titolo del nuovo libro di Corrado Ocone, direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi. Edito da Giubilei Regnani e scritto in un mese o poco più fra Roma e Edimburgo, si tratta– per usare le parole dell’autore – di “un’opera di “smascheramento” che non vuole approdare a nessuna verità, ma che indubbiamente fa almeno un po’ respirare l’aria che rende liberi, fa vivere l’esperienza della libertà.” Insomma, un libro controcorrente che non dispensa ricette, ma che fa il punto della situazione e, al tempo stesso, apre a nuove problematiche in un’ottica liberale.

Abbiamo incontrato Ocone in una tiepida giornata romana di novembre per parlare del suo libro e non solo.

Per iniziare, una domanda dal sapore accademico: la differenza tra liberalismo e liberismo ha ancora senso?

È una differenza che esiste solo in Italia, pare introdotta a fine Ottocento da Francesco Ferrara. Fu poi oggetto di una lunga polemica tra Croce ed Einaudi, con il primo interessato a una dimensione filosofica e il secondo a una più economica e giuridica. Inutile, in questa sede, ripercorrere la querelle, anche perché (e vengo alla risposta) è una questione datata. Oggi, i problemi dei liberali sono altri e più concreti, a partire dall’individuazione e dall’affermazione di nuovi spazi di libertà rispetto agli Stati e agli organismi internazionali.

D’accordo, lasciamo le dispute intellettuali e cerchiamo una definizione di liberalismo.

Nell’introduzione del libro, accenno a una definizione, anche se le classificazioni non mi entusiasmano, perché le ritengo delle gabbie. Ad ogni modo, intendo per liberalismo quella mentalità capace di vedere e di interpretare la realtà da un angolo diverso da quello usuale, da quello mainstream. Il mio liberalismo coincide (anche) con l’anticonformismo. Non di maniera, sia chiaro. Ecco, rendere viva la tensione tra idee comuni e idee eretiche è alla base del pensiero liberale.

Dunque, il liberalismo come metodo. Ma nel merito?

Nel mio libro Il liberalismo nel Novecento rilevavo due elementi comuni agli intellettuali liberali: la critica al determinismo e quella al costruttivismo. Per i liberali, la società non può essere modellata dall’alto secondo un disegno ingegneristico.

Un po’ come l’Unione Europea?

Sì, per molti versi. Ma occhio: non è la sola istituzione ad avere una visione – per usare un’espressione cara a Von Hayek – “costruttivistica”.

Nel libro traccia una specie di Pantheon e tappe fondamentali del liberalismo.

Non è proprio una vera storia del liberalismo anche perché il libro, rispetto ai precedenti, è molto divulgativo. Sarebbe meglio parlare di una sorta di mappa dei momenti canonici del liberalismo. Alcuni autori che meglio hanno rappresentato le idee liberali? David Hume con il suo scetticismo e buon senso, Alexis de Tocqueville con la sua capacità di legare alla storia e alla tradizione le idee liberali e, naturalmente, Benedetto Croce, l’autore su cui mi sono formato.

Ecco, alla fine è caduto nel tranello delle classificazioni…

Sì, ma è un Pantheon che va preso con beneficio d’inventario. Ripeto: essere liberali vuol dire fuggire dai dogmi e confrontarsi con chi la pensa diversamente.

Nel libro parla anche di populismo e sovranismo, ma senza la “boria” che caratterizza molti intellettuali e osservatori.

E qui torniamo a liberalismo come punto di vista eretico, o comunque non convenzionale, di cui parlavo prima.

Certo, ma cos’è il populismo? Rappresenta una rottura rispetto al passato o no?

Innanzitutto, la definizione di populismo è ambigua ed equivoca perché sotto questa etichetta si mettono insieme movimenti e partiti molto diversi tra loro. Poi, dobbiamo renderci conto che le categorie politiche con le quali abbiamo interpretato la politica nel secolo scorso sono volte al termine. Ci troviamo dinanzi a momenti che sembrano confusi e che forse sono il germe di qualcosa di nuovo.

Insomma, sul populismo più che un critico è un attento osservatore del fenomeno…

Sì, la prospettiva con cui mi pongo su questa e altre vicende è sempre metapolitica: trascende la lotta politica quotidiana e cerca di rintracciare i processi storici in un orizzonte più largo. Da questo punto di vista, mi sembra che noi chiamiamo populismo qualcosa che ancora non capiamo e che ancora cerca la sua forma.

A proposito di populismo, la mente va al suo nemico dichiarato: le élite.

Ma, in questo non vedo nulla di nuovo. La politica è sempre stata una lotta tra élite. Ci sono nuove élite che stanno emergendo (in maniera spesso convulsa e contradditoria) che si appellano al popolo e che ritengono casta il vecchio potere. Roba normale. Quello che distingue un sistema liberale da uno illiberale è che nel primo la competizione tra élite è aperta (e quindi c’è un cambio), mentre nel secondo il ricambio è molto più lento limitato. Noi facciamo parte del primo sistema e stiamo assistendo a un processo di avvicendamento. Tutto qui.

Populisti e sovranisti, dunque, non vanno semplicemente demonizzati.

No, sono una reazione e, anzi, dico di più: svolgono una funzione politica importante. Possono essere criticati, ma non vanno demonizzati. Vanno compresi per affrontarli e dare risposte più convincenti delle loro.

Nel sesto capitolo parla dell’imprenditore come eroe della modernità liberale…

Considero l’imprenditore una figura meritoria perché capace di innovare e creare. È uno che non si adagia allo status quo, ma individua nuove soluzioni per migliorare la propria situazione e, indirettamente, quella della società.

A proposito, tratta anche il tema dei dazi.

Ho scritto quel capitolo proprio nei giorni delle polemiche su Trump. Penso che anche in questo caso l’approccio non possa essere ideologico. Certo, qualsiasi liberale è favorevole al libero scambio. In determinate fasi storiche, però, anche il protezionismo può svolgere una funzione “liberale” e riequilibrare la barra. Prendiamo le regole del WTO: sono state elaborate in un periodo in cui la Cina non era la potenza attuale e in quel contesto erano giuste. Ma oggi la situazione è diversa. Se crediamo nella libera concorrenza, dobbiamo altresì fare in modo che i concorrenti giochino secondo le stesse regole.

Domanda secca finale: da intellettuale è favorevole o meno ai tagli alla cultura?

Penso che la cultura debba fare un po’ da sé. Le sovvenzioni pubbliche “anestetizzano”. La migliore promozione è lasciare spazi di libertà. Cultura e libertà, infatti, hanno una forte affinità di fondo. L’uomo di cultura è libero, mentre l’intellettuale novecentesco non lo è stato, visto che, tranne rare eccezioni, è stato asservito a una causa.

Dunque?

Dunque, ben vengano i tagli. Basta con la cultura di Stato.

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