L’inerzia che paralizza il Paese

L’inerzia che paralizza il Paese

Le opere pubbliche sono bloccate da un «labirinto di norme» e l’Autorità antitrust propone di sospendere il codice dei contratti e di applicare direttamente le direttive europee; l’Autorità anticorruzione e i sindacati si dichiarano subito «nettamente contrari» a questa semplificazione. Si annunciano concorsi per la scuola; i sindacati si oppongono, chiedendo l’assunzione dei precari. Il governo fa un piano per la vaccinazione; la corporazione dei magistrati richiede di esser messa in sicurezza tra le prime. Se questo non si può modificare, quell’altro non si può fare, com’è possibile governare? Il giurista e politologo Carl Schmitt, criticando le «forze interessate alla conservazione», denunciava una situazione simile in una conferenza del 1931. Scriveva: «la forza dello status quo in quanto tale è enorme e molto potente» e «la situazione della politica interna subisce l’enorme suo peso».

Elencare i titolari del potere di interdizione, oggi, in Italia, sarebbe lungo. Ne fanno parte i sindacati, che hanno sviluppato un atteggiamento esclusivamente rivendicazionistico; il potere giudiziario, che confonde indipendenza con immunità, tutela della legittimità con cura della moralità; la Corte dei conti, che scambia il ruolo di guardiano della legalità con quello di guardiano delle proprie prerogative; l’Autorità anticorruzione, che ingigantisce il pericolo della corruzione per allargare ambito e intensità della propria azione. Queste potenti forze della conservazione, in particolare quelle pubbliche, operano con metodi comuni. Crescono per addizioni successive, incrementali, espandendosi. Ad esse si applica una nuova versione della legge enunciata nel 1789 da Lavoisier: nulla si distrugge e tutto si aggiunge. Rifuggono dai compiti generali, sono interessate agli interventi decisione per decisione, in sostanza a cogestire, in funzione del «self-aggrandizement».

Un esempio è la Corte dei conti. Quest’organo avrebbe un compito principale, quello di agire come «occhio del Parlamento» nella gestione dello Stato e degli enti da esso finanziati. Ma le principali risorse della Corte sono dedicate al controllo preventivo atto per atto e all’attività giurisdizionale (in particolare, ai giudizi di responsabilità), spesso scimmiottando le procure della Repubblica. Mentre bisognerebbe sopprimere i controlli preventivi (salvo quelli sugli atti del governo), il suo presidente auspica un ampliamento dei «controlli concomitanti», che servono all’«affiancamento dell’attività dei dirigenti pubblici» (cioè a cogestire). Se il decreto «Semplificazione» limita la risarcibilità dei danni al dolo, il Procuratore della Corte dei conti interviene a difesa non solo della piena giurisdizione, ma anche dei controlli preventivi, affermando che «rassicurano i dirigenti ed evitano errori» (ma rallentano i tempi amministrativi e trasformano la Corte in decisore di ultima istanza). Appena si intravedono nuovi spazi, si cerca di occuparli: ad esempio, la proposta di integrare le commissioni tributarie con personale della Corte dei conti. La conseguenza di questa deviazione dal suo compito principale è che la Corte dei conti non contribuisce a correggere i difetti della cattiva gestione amministrativa ed è sempre assente quando si tratta di riformarla. Questo anche perché è composta di soli giuristi (non era così mezzo secolo fa, quando c’erano ragionieri ed altri specialisti di conti) ed è prigioniera di una concezione «magistratuale» del bilancio e dei conti, che richiedono, invece, economisti e contabili.

«Non ci fidiamo dello Stato e moltiplichiamo i controlli e le proibizioni», osservò nel 2016 Romano Prodi. Quindi, abbiamo ora l’Autorità anticorruzione, con un compito che poteva esser svolto dalla stessa Corte dei conti e dai giudici penali. Questo nuovo guardiano della moralità pubblica, però, si è sovraccaricato di minute funzioni burocratiche e non è in grado di dirci se la corruzione è fenomeno tanto vistoso come viene presentato. Non si è mai vista un’autorità che lotta contro qualcosa di cui non conosce o non sa stimare le dimensioni. La conseguenza è che nessuno può dire se la sua azione sia efficace nel prevenire la corruzione, mentre tutti riconoscono che lo è nell’impedire e rallentare l’attività amministrativa.

I paradossi di questa situazione sono tre. Il primo è che negli ordinamenti moderni l’azione di contrappesi sarebbe utile, ma a condizione che essi non agiscano da freno o impedimento, come nel nostro caso. Il secondo è che quelle forze che ora operano in funzione conservatrice hanno in passato svolto un ruolo ben diverso. Ferdinando Carbone agli albori della Repubblica, e più tardi Vittorio Guccione, hanno contribuito a perfezionare e realizzare la relazione della Corte dei conti al Parlamento sul rendiconto generale. Giulio Pastore e Luciano Lama, due leader sindacali, erano interessati a migliorare il funzionamento dello Stato almeno quanto ad assicurare migliori condizioni di lavoro ai dipendenti pubblici. Il terzo è che la storia avrebbe potuto essere diversa: l’Autorità anticorruzione, invece di aspirare a fare l’angelo custode, avrebbe potuto aiutare le amministrazioni a gestire meglio, così evitando la «maladministration» (ad esempio, un funzionario meno dipendente dai partiti avrebbe potuto spiegare a un assessore regionale che «spalmare» su più giorni i morti falsa le valutazioni tecniche, orienta in modo errato le decisioni politiche e danneggia la salute pubblica).

Naturalmente, vi sono anche altre responsabilità: i difensori della conservazione sono tanti e così forti perché la nostra democrazia è disgregata, ha una guida politica mutevole per il continuo passaggio di governi e di forze politiche, è guidata solo per brevi periodi di tempo da veri uomini di Stato.

Corriere della Sera 

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